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Noi, cronisti diffamati per la nostra inchiesta sul clan Fini-Tulliani

"Il Giornale" aveva portato prove e testimoni. Ma ci accusavano: "Siete macchina del fango"

Noi, cronisti diffamati per la nostra inchiesta sul clan Fini-Tulliani

Spargifango. E spione. Di certo non giornalista. Mi hanno detto di tutto in quei mesi passati con Gian Marco Chiocci a inseguire l'affaire immobiliare di Montecarlo, a scavare nella storia di quella casa donata ad An da una contessa e finita nelle mani del cognato del leader di An, Gianfranco Fini, allora presidente della Camera. Eravamo diffamatori, non giornalisti. Manovalanza addetta a spalare letame da lanciare nel ventilatore, autisti della famigerata «macchina del fango».

Eppure la storia per noi era chiarissima. Accertato che in quella casa ci viveva il «cognato» Giancarlo, recuperati alla Conservatoria del Principato i contratti di compravendita che mostravano lo «schermo» off-shore utilizzato per nascondere il nome dell'acquirente, pensavamo che il più fosse fatto. Sapevamo che sarebbe stato quasi impossibile «stanare» il giovane Tulliani dal nascondiglio societario messo in piedi nella lontana isola di Saint Lucia, ma abbiamo continuato a raccogliere prove ed elementi che cozzavano con le «versioni ufficiali» erogate con il contagocce e tanta arroganza dall'allora terza carica dello Stato. Che sosteneva di aver saputo che il cognato viveva lì «qualche tempo dopo la vendita» dell'appartamento, manifestando tra l'altro «sorpresa e disappunto» alla sua compagna Elisabetta. E promettendo di dimettersi se fosse stato provato che Tulliani Jr era proprietario dell'appartamento.

Lo abbiamo fatto. Raccogliendo meticolosamente prove e testimonianze. Rintracciando il dipendente del mobilificio di Roma, sulla via Aurelia, che, prima anonimamente e poi con nome e cognome, ci disse di aver visto Fini e signora presentarsi in negozio per scegliere la cucina da installare nella casa di Montecarlo e tornare per seguire il progetto e organizzare la spedizione. Abbiamo pensato che un colpo così avrebbe forse aperto una crepa nell'omertà del presidente della Camera. Sbagliavamo.

Per Fini - anzi, per il suo portavoce - quella che in seguito si sarebbe dimostrata semplicemente la verità era invece un «delirio diffamatorio». E per quasi tutti gli altri, purtroppo anche per molti colleghi, la vera notizia su cui concentrarsi erano le dimissioni del dipendente del mobilificio, Davide Russo. Che avesse rinunciato a un incarico per amore di verità, a quanto pare, era inaccettabile. Doveva essere stato pagato per farlo. Lui si ritrovò assediato dai giornalisti, che invece di chiedergli se davvero aveva visto Fini comprare la cucina, gli chiedevano conto del perché avesse deciso di raccontarlo a noi.

È andata avanti così fino alla fine, l'inchiesta sulla casa di Montecarlo. Da un lato noi del Giornale che battevamo il Principato, inseguivamo a Bergamo gli eredi della contessa Colleoni, volavamo a Santo Domingo e poi a Saint Lucia per accertare la genuinità di una lettera che legava Tulliani a quelle società off-shore. Dall'altro Fini e i finiani intenti a negare tutto, anche l'evidenza, e ad attaccarci, anche personalmente. Hanno continuato a farlo anche quando le prime perquisizioni negli uffici di Corallo avevano portato alla luce i rapporti con i Tullianos. C'era da farsi qualche domanda, ma da Fini è arrivato il solito silenzio. Ingigantito, poco dopo, dalla sua rapidissima scomparsa dalle scene.

E ora ecco che l'indagine sul re delle slot mette a nudo la verità. La verità è che non era Fini il diffamato, semmai noi, derubricati da cronisti a pennivendoli asserviti a una vendetta politica. La verità è che Fini, nella migliore delle ipotesi, è un «coglione», come dice lui stesso. Difficile dargli torto: andava in tv a dire di non sapere nulla, mentre sua moglie mandava fax a Corallo e Corallo faceva piovere milioni di euro nei conti correnti del cognato e del suocero. E nella peggiore delle ipotesi - quella dei pm - è un riciclatore in concorso con la sua dolce metà e il resto della famiglia.

Ma questo dovranno dirlo i magistrati.

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