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Noi, eroi vigliacchetti col senso dell'orgoglio

Siamo come uno dei protagonisti della "Grande Guerra": imboscato ma anche capace di affrontare con coraggio il plotone d'esecuzione

Noi, eroi vigliacchetti col senso dell'orgoglio

Gli italiani sono poi tutti lì, nella scena finale del capolavoro di Monicelli, La Grande Guerra, quando i soldati Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) decidono di salvare la pelle vendendo agli austriaci i piani militari del proprio esercito; ma quando sentono l'ufficiale dei tognitt che parlando in tedesco disprezza non solo loro, ma tutto il popolo italiano, hanno uno scatto di orgoglio, decidono di non parlare più e si fanno fucilare. Gli italiani sono tutti lì, nei soldati Jacovacci e Busacca: imboscati, cialtroni, fifoni, ma capaci in un attimo di rovesciare il mondo e se stessi, diventando fieri, coraggiosi, eroi.

Sempre in quel grande film si vede subito, fin dall'inizio, che gli italiani non sono un popolo coeso, non parlano neppure la stessa lingua, Gassman è un milanese che per la prima volta in vita sua sente incontrando Sordi la parlata romanesca. La prima guerra mondiale è stato il primo momento, nella storia dello Stato unitario, in cui la babele della penisola ha dovuto cercare una lingua di sintesi, trovandola nell'italiano, che poi è il toscano, e che mai era stato parlato dal popolo se non fra i dotti. Anche in un altro film sulla guerra del '15-'18, Torneranno i prati di Olmi, si vedono i napoletani che provano a decifrare i veneti, e viceversa. Quella guerra è stato il primo momento unificante del popolo italiano, poi più avanti sarà la televisione a uccidere i dialetti.

Ma gli italiani restano sempre un popolo diviso e questa è la nostra debolezza, lo dice anche l'inno nazionale: «Noi siamo da secoli / calpesti, derisi / perché non siam Popolo / perché siam divisi». Siamo innanzitutto lo diceva don Sturzo il Paese dei campanili. Non esistono gli italiani e non esistono neppure il Nord e il Sud, perché in Piemonte si parla francese, in Veneto si parla in veneto che non è un dialetto (guai, a dirglielo) ma una lingua; in Lombardia poi ci vuole un interprete fra uno di Sondrio e uno di Pavia, ma anche fra uno di Milano e uno di Bergamo, ché i bergamaschi parlano con le vocali aspirate e sembrano arabi. Ecco in Lombardia ci sarebbe magari l'Insubria, che sono le province (ma poi neanche tutte) di Milano, di Monza, di Varese e di Como. Quella sì, l'Insubria, ha una parlata che un denominatore comune ce l'ha. Però, per dire, quando il Varese e il Como capitarono nella stessa serie C (allora si chiamava così) i prefetti chiamarono la Lega Calcio e chiesero per favore gironi separati, motivi di ordine pubblico. Ma poi anche i veneti, che sono stati i primi a inventare la Liga a chiedere la secessione, non sono tutti poi così coesi: «Venesiani gran signori, padovani gran dotori, visentini magnagati, veronesi tuti mati», dice il proverbio. Neppure la Razza Piave è un tutt'uno: c'è la Sinistra Piave, parte orientale della provincia di Treviso, e la Destra Piave, che arriva a ovest fino al Sile. È che non esistono le province, oltre che le regioni. Esistono solo i comuni. E poi, anche i comuni, insomma, c'è quartiere e quartiere. Gino Bramieri, in un memorabile monologo, partiva rivendicando di essere italiano, poi precisava: lombardo, quindi milanese, quindi di Porta Ticinese, e infine arrivava alla propria via, al proprio condominio, al proprio appartamento, a se stesso.

Siamo divisi, siamo sempre stati divisi: guelfi e ghibellini, con Garibaldi e con i Borbone, cattolici e socialisti, fascisti e antifascisti, monarchici e repubblicani, berlusconiani e antiberlusconiani, sempre due partiti uno contro l'altro. E sempre, ancor di più, prima di tutto se stessi, o almeno il «tengo famiglia» di longanesiana memoria, perché individualisti siamo individualisti, su questo sem d'acord. Si dice che non sia un caso che anche nelle tragedie ci distinguiamo dai tedeschi che sono tutti di un pezzo fino alla fine: Hitler che muore suicida nel rogo di Berlino e Mussolini che scappa con l'amante sono l'autobiografia di due nazioni.

E però furbastri scrocconi e gaudenti sì, ma anche imprevedibili, geniali, creativi, generosi quando occorre, più di cuore che di ragione, che è una virtù alla fine perché come diceva Pascal «il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce». Dico una banalità? La dico: non è un caso se nell'arte, nella cultura, nella cucina, nel saper vivere non abbiamo eguali. E neppure nell'arte di risollevarci dai guai, abbiamo eguali. Per questo ci saremo sempre, noi italiani: così diversi ma così uniti da questo carattere unico al mondo. Anche coraggiosi, se ci offendono e ci minacciano. Perché ci sarà sempre qualcuno che, di fronte a un settimanale o a un euroburocrate che ti insulta in tedesco risponderà come il soldato Giovanni Busacca-Vittorio Gassman: «E allora senti un po', visto che parli così...

Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!».

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