Lettere d'amore

Non darmi lezioni né inutili addii

Anche tu hai avuto i tuoi feroci abbandoni

Le tue parole sono più urgenti e luminose dell'amore che vorresti cucito su misura per me. Le pretendi calde mentre vivono gelide e immobili. Sogni una costellazione vergine da esplorare, come io mi illusi di nuotare nell'anatomia umana e nella musica. Amore, amore, amore... Tu, George, ora scrivi di essere il «fratello» che mi resta e dimentichi le notti e le altre mille notti in cui fuggivi per cercare altre città pulsanti di desiderio per chiamarle «amore». Tu ti percepisci di luce calda, avvolta nel mantello di Eva, mentre io vago senza connettere se il cuore che incontrerò è di sgualdrina o di madre. Nella nostra tempesta ho capito che tu sai cibarti della luce e ruotare come una stella. Infatti sei nata per fingerti stella! Io invece ruoto famelico nell'ombra; e quando chi mi ama crede che il sottoscritto tradisca sordido, il sottoscritto si agita tra lenzuole e bende di corpi andati in sfascio come i cadaveri squarciati negli obitori. Tu mi scrivi: «Ma io ho amato», con lo stesso imperativo degli ingenui e degli eroi. Sali sulla cima senza scalarla. Ti inerpichi dove l'aria è rarefatta per studiare o cancellare meglio i moscerini che hai abbandonato a valle. Tu sei lucida della tua follia, e io un povero alcolista da salvare e mai curare. Tu sei pura e io annego nell'assenzio. Ma non darmi lezioni di amore. Amore, amore, amore... Ma di quale amore parliamo? Dovresti raccontarmi la nuit, nuit, nuit... La notte feroce dei tuoi abbandoni, delle tue «distrazioni» confessate in peccati veniali. Ebbene, Alfredo non ha l'impudicizia di sconfessare le sue torbide passioni. No, Alfredo le confessa senza dover inneggiare all'amore ucciso, sperato, augurato, sentenziato. Alfredo, sorellina mia!, preferisce l'abbandono. Accetta, come lo studente in medicina quale io fui, di sbirciare nelle viscere senza avere in tasca il profumo che cancelli la nostra passione. Cara, io non ho bisogno di un «fratello». Né di consigli sull'amore. Sono stanco di me ancor prima delle parole che usiamo per travestire la disfatta. Amore, amore, amore... La tua droga è servita. Io vorrei tenermi la notte e il buio. Non so se là troverò un cuore di pietra o ghiaccio. Né spero nella giovinezza e in anime ardenti. Venezia è lontana. Venezia è ammalata. Io non cercherò nulla. Vivrò tutto quello che mi resta. Venezia non sarà il ricordo delle nostre passioni, ma la sentirò trasformarsi nella casa sull'acqua che mi culla. È lei che mi prenderà la mano senza parlarmi di amori. Non servono le tue lettere per rammentarmi che la nostra Venezia è sparita nella palude. Lo so, l'ho sempre saputo. Non voglio che me lo ricordi. La mia, e solo mia, non si desterà negli incubi. Venezia ora è il destino. Non le «gioie» che avvelenano. Venezia è il miracolo tellurico dell'universo. Non va citata. Stupido io a scriverne. Regnerà anche senza il tuo e il mio amore. Questo è.

Senza imperativi e inutili addii.

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