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Non sparate su Bankitalia

Non sparate su Bankitalia

A percorrere i lunghi corridoi di Palazzo Koch, sede prestigiosa della Banca d'Italia, ti sembra di essere in Vaticano: a parte i commessi, che assomigliano alle Guardie svizzere come ha giustamente osservato Bruno Vespa, respiri quella stessa atmosfera solenne e pure mistica all'ombra del Cupolone. Una specie di tempio, insomma, una vera e propria «énclave»: non è un caso che, ai tempi d'oro, l'assemblea annuale dell'istituto centrale, celebrata il 31 maggio di ogni anno, era stata ribattezzata dai giornali «la messa cantata».

Quell'atmosfera solenne venne profanata solo nel 2005 quando l'allora governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, fu costretto a dimettersi dopo che uno scoop del Giornale mise in luce certe pressioni esercitate sullo stesso istituto centrale perché fosse approvata un'offerta pubblica d'acquisto da parte della Popolare di Lodi nei confronti di una banca che, tanto per cambiare, era l'Antonveneta. Adesso, a distanza di dodici anni, sono in molti e non solo dalle parti di Renzi a chiedere un bis con l'uscita di scena del governatore, Ignazio Visco, colpevole di scarsa vigilanza sulle banche nell'occhio del ciclone, a cominciare dall'Etruria nel cui consiglio d'amministrazione sedeva, come vicepresidente, papà Boschi.

Non sono certo un grande sostenitore del governatore perché, in questi anni, anche per colpe non sue (leggi Bce, nonostante Draghi), Bankitalia ha indubbiamente perso molto del suo vecchio «appeal», ma, in questo caso, sarei assolutamente contrario a una uscita di scena anticipata. I motivi sono tanti. C'è, innanzitutto, il dato di fatto che l'inquilino di Via Nazionale è stato appena riconfermato nonostante la mozione contraria del Pd approvata dal Parlamento: un suo immediato disimpegno si tradurrebbe in una clamorosa sconfessione a stretto giro di posta di tutti coloro che, solo poche settimane fa, avevano chiesto la riconferma anche per riaffermare l'autonomia dell'istituto centrale di fronte all'ingerenza della politica. Non è poi vero - come ha rilevato lo stesso presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta, Pierferdinando Casini - che la vigilanza abbia fatto acqua dappertutto: proprio l'altro ieri il procuratore abruzzese che indaga su CariChieti ha affermato che il controllo degli uomini di Visco è stato, in quel caso, pressante, esattamente il contrario di quanto aveva dichiarato, 24 ore prima, il suo collega di Arezzo a proposito di Banca Etruria. Saranno anche stati due pesi e due misure di Bankitalia, ma è certo, comunque, che, almeno in qualche indagine, c'è stato l'occhio vigile di Via Nazionale.

Ma il motivo principale che ci deve indurre a chiedere a Visco di restare al suo posto, l'ha spiegato ieri, nel suo editoriale, il direttore Sallusti: in questa specie di gioco a guardie e ladri, sarebbe davvero assurdo che a pagare siano soltanto le guardie, che avrebbero anche potuto controllare meglio, mentre i veri responsabili, i ladri, possano farla nuovamente franca dopo aver trovato il capro espiatorio su cui addossare tutte le colpe. Il governatore, insomma, non deve imitare Antonio Fazio.

Semmai, a dimettersi, con gli «share» che si ritrova a Che tempo che fa, dovrebbe essere oggi un altro Fazio: Fabio.

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