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Il nuovo asse imperialista riunito per spartirsi la Siria

Erdogan, Putin e Rohani parlano di pace, ma barano: la guerra continuerà. Trump si chiama fuori (e sbaglia)

Il nuovo asse imperialista riunito per spartirsi la Siria

È davvero la nemesi di ogni processo di pace il fatto che le sciagure della Siria e la sua risoluzione siano finite ieri nelle mani del gatto, Tayyip Erdogan, della volpe, Hassan Rouhani, e del padre nobile, Vladimir Putin: il mondo del nuovo imperialismo in una sola foto. Il loro incontro ad Ankara ieri ha disegnato un coacervo di interessi acuti e contrastanti, e una volontà evidente di spartizione. Il tutto, segnato dalla bambinesca soddisfazione, peraltro autorizzata dal grande assente, che l'America di Trump sia fuori dal giuoco, errore che Trump ancora non ha capito quanto sia grande, poiché consente l'espansione dei suoi peggiori nemici in un'area volatile e pericolosissima. Trump ha annunciato il suo desiderio di salpare definitivamente le ancore, abbandonando curdi, yazidi, sunniti dissidenti, cristiani... nelle mani del trio. Dell'Europa non se ne parla nemmeno, in senso proprio. E la strage dei trecentomila continuerà. I tre protagonisti non si sono abbracciati davanti alle telecamere, i loro scopi rimangono contrapposti. L'Iran e la Russia sono i sostenitori di Assad, mentre Erdogan lo odia. Ma Erdogan, che assorda il mondo dando di assassino a destra e a manca, ora dimentica la ruggine con la Russia, fino ad essere uno dei pochi Paesi che non hanno espulso i diplomatici russi dopo l'attacco con gas nervino contro un'ex spia di Putin.

Adesso che cosa vuole la Turchia dal leader russo? Oh, poca roba, il permesso di neutralizzare i curdi, la conclusione positiva della vendita del sistema missilistico S400, fra i più potenti del mondo, e la realizzazione del piano Rosatom per il primo impianto nucleare turco. E l'Iran? Oh niente, solo dominare il Medio Oriente, dall'Iran al Libano e da là, il cielo è il limite... E la Russia, tutto. Più in generale, i tre Paesi ieri riuniti per chiudere sette anni di guerra mettono in primo piano grossi interessi. La Russia e l'Iran vogliono pieno accesso alla costa, dove si trova la base di Tartus per il dominio russo del Mediterraneo e la base aerea presso Latakia, e per Teheran è importante un chiaro canale di passaggio verso la capitale irachena Bagdad, e fino ai confini con Israele: da là, si espande il dominio sciita, da qua può minacciare Israele anche attraverso gli Hezbollah. Ankara, dopo la pulizia etnica di curdi ad Afrin, mentre Assad con i russi bombardavano Idlib (uno scambio fra gentleman), vuole seguitare a perseguitarli a Manjib, a occidente dell'Eufrate, altra zona curda. È quindi illusorio pensare che le tre forze in campo possano bloccare lo scontro: esso nacque come rivolta sunnita contro lo strapotere sciita di Assad e i suoi amici e resterà. E i curdi non si arrenderanno ai turchi. La guerra continuerà.

Il summit di Ankara è il secondo, dopo un incontro a Sochi, che cerca di contrabbandare l'idea che i tre, prima coinvolti in scontri tra di loro, vogliano adesso discutere un accordo di pace. Alle telecamere parlano, legalisti come sono e democratici, di una «Costituzione» per il popolo siriano; ma nel segreto delle stanze del palazzo di Erdogan certo si è parlato di molto altro. Per esempio, Putin, che non è un appassionato della sopravvivenza di Assad, ha anche qualche conto aperto con l'Islam.

Ha fatto male Trump ad annunciare proprio ieri che se ne andrà dalla Siria: sembra una mossa di paura, che avalla l'abbandono dei curdi, i suoi migliori alleati nella guerra contro l'Isis; o un cedere alla Turchia per la preoccupazione che la Nato possa esplodere; sembra un lasciare campo libero a quell'Iran di cui così giustamente sa criticare le ambizioni atomiche e la violazione dei diritti umani. Insomma, sembra una risposta a un ricatto.

E non è vero che sarà un risparmio economico: se i sauditi si ingaggiano in una guerra con l'Iran, il mercato del petrolio va in pezzi.

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