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Ora negli Usa è guerra di statue. E i "sudisti" invocano Jefferson

Dopo il generale Lee abbattuto anche il busto di Jackson

Ora negli Usa è guerra di statue. E i "sudisti" invocano Jefferson

Dagli allo schiavista. Anche se è di marmo. Le violenze di Charlottesville, dove sabato scorso un militante suprematista bianco ha ucciso una manifestante di un contrapposto fronte di sinistra, riaprono il dibattito sui numerosi monumenti dedicati a esponenti della ottocentesca Confederazione che ancora oggi costellano le città degli Stati del Sud degli Stati Uniti. E in qualche caso hanno già dato lo spunto per farle abbattere, come è accaduto la notte scorsa a Baltimora nel Maryland.

«Mi sono preoccupata della sicurezza delle persone - ha detto il sindaco democratico della città Catherine Pugh nel motivare l'azione avvenuta in tutta fretta col favore delle tenebre per evitare disordini -. Ora è fatta». E certamente ha fatto impressione veder abbattere la statua del generale secessionista Robert Lee con l'ausilio di una gru, lo stesso metodo usato a Bagdad dall'esercito americano per tirare giù dal suo piedistallo il colossale monumento dedicato a Saddam Hussein.

A Baltimora hanno fatto la stessa ingloriosa fine - oltre al monumento dedicato alle donne confederate - le statue dell'altro generale sudista Thomas Jackson e del giudice Robert Taney, autore di una famigerata sentenza in favore della schiavitù. L'intento del sindaco Pugh - ma anche ad esempio di quello di Lexington nel Kentucky, che ha in mente qualcosa di molto simile - era quello di evitare che si ripetessero nella principale città del Maryland scontri violenti come quelli della vicina Charlottesville, dove il pretesto era stato fornito proprio dall'abbattimento di un'altra statua del generale Lee. Ma chissà se l'eliminazione delle statue sortirà l'effetto voluto o non provocherà, piuttosto, nuove pericolose tensioni.

Le premesse, purtroppo, non mancano. Nella città di Durham, nella Carolina del Sud, alcuni manifestanti si sono «fatti giustizia da sé» e hanno abbattuto un monumento ai soldati confederati, facendosi ritrarre mentre colpivano la statua ormai a terra. E a Washington ignoti hanno imbrattato con la vernice il Lincoln Memorial, uno dei monumenti più famosi e visitati della capitale degli Stati Uniti, dedicato al presidente che nel 1865 pagò con la vita la sua storica decisione, risalente a due anni prima a guerra di secessione ancora in corso, di abolire la schiavitù nel Paese.

Sui media, intanto, è aperto i dibattito sull'opportunità di eliminare dai luoghi pubblici degli Stati di quello che fu il Sud secessionista i simboli del tradizionalismo schiavista. Di fronte alle violenze attuate da gruppi dell'estrema destra come il Ku Klux Klan o i neonazisti americani, i democratici e parte dei repubblicani sostengono che sia giunto il momento di fare - è il caso di dirlo - piazza pulita di monumenti il cui significato stride con i valori di un Paese che è ancor oggi bianco in maggioranza, ma che è multirazziale come pochi altri al mondo e la cui Costituzione rifiuta ogni tipo di discriminazione.

Ma se a difendere il diritto di Robert Lee a guardare dall'alto in basso i cittadini americani del XXI secolo sono rimasti davvero in pochi, c'è però chi sensatamente si chiede se, dopo il turno dei generali e dei giudici sudisti, non verrà quello di George Washington e Thomas Jefferson. I primi presidenti degli Stati Uniti furono infatti, coerentemente con un costume dell'epoca ben diverso dall'attuale, proprietari di schiavi: dagli anche a loro, quindi?

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