Cronache

Otto ore al giorno a 500 euro. Vita da precari delle Onlus

Li chiamano "dialogatori": ecco cosa c'è dietro ai cacciatori di beneficenza con le pettorine colorate

Otto ore al giorno a 500 euro. Vita da precari delle Onlus

Roma - «L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), cerca un dialogatore nell'aeroporto bergamasco di Orio al Serio». È un annuncio invitante, a prima vista, quello che si presenta sul sito internet della «OmGroup», società che gestisce l'assunzione di collaboratori per alcune organizzazioni umanitarie curandone l'intero processo di selezione, formazione e inserimento dei collaboratori. «Un progetto esteso su tutto il territorio, che vanta 400 punti vendita e oltre 1000 tra venditori e promoter, per una rete di competenza e professionalità al servizio dei giovani e della produttività firmata Italia», è questo il messaggio di presentazione che si legge online.

D'altronde, l'idea di lavorare per un'ente prestigioso come Unicef spinge ogni anno centinaia di giovani a tentare di entrare nel mondo del terzo settore. La trafila è quella classica: è necessario rispondere all'annuncio di lavoro inviando un curriculum, all'interno del quale deve essere riservata particolare attenzione alle motivazioni della scelta, più che all'esperienza maturata. Tuttavia colpisce sin da subito la totale assenza di informazioni che possano agevolare la scelta: nessun cenno all'entità di compensi, rimborsi spese o modalità di lavoro, e perlopiù il risicato avviso fa nascere alcuni interrogativi sul tipo di contratto che eventualmente si andrebbe a sottoscrivere.

Per avere maggiori informazioni sull'offerta di lavoro, entro perciò in contatto con l'ufficio «recruitment» dell'azienda, dal quale rispondono alle domande a metà tra lo stupore e il fastidio: in caso di avvenuta selezione, il candidato dovrà sottoporsi in un secondo momento a due colloqui conoscitivi e a due giornate di preparazione. «La prima formazione preventiva - riferiscono ai centralini - è a cura di Unchr ed è quella meno importante, perché ti parlano soltanto delle questioni etiche, e poi ce n'è una seconda più pratica a cura di OmGroup in cui ti istruiscono su cosa vendere ai clienti e in che modo, con quali modalità approcciare, che tonalità di voce e quali parole usare». E di fronte al silenzio basito proveniente da questa parte della cornetta, il telefonista prosegue: «Sai, è vero che parliamo di no-profit, ma sostanzialmente si tratta di vendere prodotti». Proprio così.

In gergo, il tipo di mansione si chiama «fundraising face to face» e prevede un'opera di sensibilizzazione diretta in piazze, stazioni ferroviarie, aeroporti e nei pressi di eventi delle grandi città italiane, alla ricerca di potenziali sostenitori disposti a sottoscrivere un impegno a donare. Adornati di pettorine colorate e di cartelline, i dialogatori sono quelle figure incaricate di motivare persone a sostenere i progetti delle organizzazioni no-profit attraverso contributi (che loro non incassano direttamente). Negli anni lo strumento del face to face si è trasformato in una vera e propria àncora di salvezza per le Ong, le cui donazioni provengono - con differenze tra le singole organizzazioni - fino anche al 70-80% proprio dai contatti in strada. Ad esempio, soltanto nel 2014, su 14,4 milioni di euro raccolti dall'Unicef Italia, i due terzi provenivano da persone incontrate dai dialogatori. Proprio come nel caso di Unchr, spesso le Ong si affidano ad aziende specializzate per il reclutamento. Esiste un intero universo di società per la promozione degli enti umanitari; RcCompany, Xena Marketing, Ftdm, Pacificgroup, Luna Marketing, Jumbo sono solo alcuni nomi che più spesso circolano nell'ambiente. E non è difficile imbattersi in una marea di giudizi negativi denunciati da centinaia di ex dialogatori, che parlano di «condizioni lavorative discutibili». Intanto dal recruitment informano che «il rimborso (che non viene mai chiamato «compenso» ndr) ammonta a circa 500 euro, a cui vanno ad aggiungersi eventuali provvigioni». Si è meritevoli di bonus sulla base delle donazioni che si riesce a portare a casa, ma i «premi» sono proporzionati al tipo di abbonamento fatto sottoscrivere al donatore: più è alto il contributo, maggiore sarà il bonus.

Eppure chi ha fatto questo lavoro è pronto a giurare che «non è mai così, le remunerazioni sono commisurate ai risultati raggiunti, che quasi mai vengono ritenuti sufficienti».

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