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Il paradosso americano: solo i miliardari vogliono i rifugiati

Il pugno duro di Trump e il paradosso degli Stati Uniti: solo i colossi come Google, Starbucks e Facebook vogliono apre le porte agli immigrati

Il paradosso americano: solo i miliardari vogliono i rifugiati

New York - La Silicon Valley e la Corporate America lanciano una controffensiva assicurando fondi, case e lavoro ai rifugiati e ai cittadini provenienti dai sette Paesi a maggioranza islamica colpiti dall'ordine esecutivo del presidente Usa Donald Trump. A guidare la cordata è Starbucks, la catena del caffè di Seattle, che nei prossimi cinque anni ha promesso di assumere 10mila rifugiati. In una lettera ai dipendenti l'amministratore delegato Howard Schultz ha affermato che le assunzioni riguarderanno i punti vendita in tutto il mondo, ma inizieranno proprio dagli Stati Uniti, dove verrà data priorità agli immigrati che hanno prestato servizio con le forze armate statunitensi all'estero come interpreti o personale di supporto. Un contributo che è stato utilizzato in maniera massiccia dalle truppe a stelle e strisce durante le guerre in Irak e Afghanistan.

«Viviamo in un momento senza precedenti, dove la coscienza del nostro Paese e la promessa del sogno americano sono chiamati in causa», ha scritto Schultz riferendosi al decreto siglato venerdì dal Commander in Chief che congela l'ammissione dei rifugiati e dei cittadini provenienti da Irak, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen. «Questi tempi incerti richiedono misure e strumenti di comunicazione diversi da quelli usati in passato», ha aggiunto il ceo di Starbucks. «Non rimarremo in silenzio mentre cresce ogni giorno l'incertezza per le azioni della nuova amministrazione», ha scritto ancora Schultz, precisando che la mossa di Trump sta creando «profonda preoccupazione». Anche Google è scesa in campo contro il giro di vite di The Donald, creando un fondo da 4 milioni di dollari da destinare a quattro organizzazioni che si occupano di migranti e rifugiati, l'American Civil Liberties Union (Aclu), l'Immigrant Legal Resource Center, l'International Rescue Committee e l'Unhcr (l'agenzia Onu per i profughi). Due milioni verranno stanziati dalla società e altrettanti saranno donati dai dipendenti, inoltre i top manager di Big G stanno effettuando separatamente donazioni individuali per la causa. La campagna, contenuta in una nota dell'ad Sundar Pichai e confermata da un portavoce, è la più grande di sempre dell'azienda legata a una crisi.

Anche altre società della Silicon Valley hanno adottato iniziative a favore dei profughi: Uber, per esempio, sta creando un fondo di difesa legale da 3 milioni di dollari per aiutare i suoi autisti con le questioni legate all'immigrazione. E il Ceo dell'app di car sharing, Travis Kalanick, ha definito «sbagliato e ingiusto» il decreto del tycoon. La critica di Kalanick è però arrivata dopo che una valanga di clienti inferociti hanno cancellato l'app dai loro smartphone perché Uber ha continuato a trasportare i passeggeri dall'aeroporto Jfk mentre i tassisti avevano indetto uno sciopero contro il re del mattone. Il sito di condivisione di case Airbnb, poi, ha detto che darà alloggio gratuito ai rifugiati e alle altre persone non ammesse negli Usa.

Il primo ad attaccare Trump per il giro di vita sull'immigrazione, pero', e' stato il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, che ha esortato il Commander in Chief a «tenere aperti i confini ai profughi. Dobbiamo mantenere questo paese sicuro - ha scritto in un lungo post su Facebook - ma dovremmo farlo concentrandoci sulle persone che effettivamente rappresentano una minaccia». Quindi, ha ricordato che «siamo una nazione di immigrati, e noi tutti abbiamo benefici se i soggetti più brillanti di tutto il mondo possono vivere e lavorare in America».

E il Ceo di Apple, Tim Cook, ha avvertito che Cupertino «non esisterebbe senza immigrazione»', ricordando che il genio della Mela Steve Jobs, era figlio di un immigrato siriano.

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