Politica

"Parola di ex toga rossa: la condanna si basava sull'ideologia di Md"

Sergio D'Angelo: "I giudici della corrente si sentono guardiani della morale. Si può costruire un verdetto di colpevolezza"

Comincia dalla fine. Dall'interminabile camera di consiglio: «Adesso molti professori di retroscenismo sostengono che se è durata tanto, vuol dire che i magistrati hanno litigato. Dunque, sottintendono, Berlusconi è mezzo colpevole».

Invece?

«Può pure essere. Ma potrebbe valere il ragionamento contrario».

Tradotto in italiano?

«Il collegio ha voluto corazzare una decisione così importante con una motivazione adeguata. Capisce?».

Sergio D'Angelo, toga rossa per una vita prima di uscire polemicamente da Magistratura democratica e oggi a riposo fra le colline del Monferrato, torna al punto di partenza. «Questa storia è iniziata a Milano, che è storicamente uno dei capisaldi di Md, la mia vecchia casa, la corrente in cui ho militato per tanti, tantissimi anni. E Md ha una cultura, un'ispirazione, una sensibilità particolari».

Sia più chiaro.

«Chi appartiene a questa storia, o l'ha anche solo respirata, costruisce una legalità diversa, sviluppa una logica della prova che non coincide con quella, chiamiamola così, ordinaria, in qualche modo diventa un guardiano della morale pubblica».

Scusi, sta accusando qualche suo collega di aver agito secondo un pregiudizio antiberlusconiano?

«Io non parlo di malafede, ci mancherebbe. Però da toga rossa pentita posso dire che si può costruire un verdetto di colpevolezza dove altri si sarebbero fermati alla prima stazione».

Addirittura?

«Le rispondo con un esempio: l'orribile storia delle bambine che si prostituivano con personaggi eccellenti della Roma bene in un appartamento dei Parioli. Una vicenda dolorosa che è finita sulle prime pagine dei giornali. Quattro imputati, che sapevano benissimo di abusare di due ragazzine, hanno patteggiato un anno, dico un anno con tanto di condizionale, e fine della storia. Attenzione, parliamo di ragazzine di cui per rispetto non abbiamo mai visto il volto, non di una Ruby che avrebbe potuto ingannare chiunque e dimostrava tranquillamente, anzi sfrontatamente, più di vent'anni. Ecco, il dubbio sull'età di Ruby, maggiorenne o no, avrebbe fermato molti colleghi. Si sarebbero arresi. A Milano invece, siamo andati avanti per anni, con un danno d'immagine a livello internazionale che è difficile persino quantificare».

D'accordo, ma molti giudici non sono di Md.

«No, ma sono portatori sani di quella cultura che si è diffusa fra le toghe. Io questo mondo un po' lo conosco, oltretutto ho concluso la mia carriera alla corte d'Appello di Milano. Quindi capisco quella tensione ideale, ma anche molto concreta, l'ansia di riuscire a superare il dubbio e arrivare infine al verdetto».

Altri giudici hanno cancellato la sentenza di colpevolezza. Il fantomatico partito dei giudici è un'invenzione del centrodestra?

«Il problema è più sottile. È l'insistenza».

L'insistenza?

«Certo, nel sostenere una tesi accusatoria quando potrebbero esistere altri modelli. Da questo punto di vista trovo una grande continuità fra l'azione della procura di Milano e la requisitoria del sostituto procuratore generale della Cassazione che l'altro giorno aveva chiesto l'annullamento dell'assoluzione».

Eduardo Scardaccione rappresentava l'accusa e ha fatto il suo mestiere.

«Sì, ma secondo me per quel che ho letto sui giornali si è fatto prendere la mano, scivolando sul merito. O meglio entrando nel merito dei fatti. E dei fatti in Cassazione non si dovrebbe più parlare».

Scardaccione ha sbagliato?

«Domanda respinta. Scardaccione, quello Scardaccione che a suo tempo, quando l'ho conosciuto, era un autorevole esponente di Md, ha seguito con coerenza una sua logica: ha messo in fila i fatti, legandoli tutti secondo una prospettiva colpevolista».

Errore?

«Cerchiamo di capirci: il punto non è la singola prova, la qualità del singolo elemento di colpevolezza, ma la lettura complessiva della vicenda, fermo restando il libero convincimento dei magistrati. In questo modo si può arrivare a sostenere la colpevolezza dell'imputato fino a dargli sette anni di carcere. Ma gli stessi elementi, studiati con un altro occhio, porteranno un altro collegio ad un verdetto opposto. È quel che è successo prima in corte d'Appello e poi in Cassazione.

I miei colleghi dovrebbero riflettere a lungo sullo spread culturale che generano verdetti così lontani fra loro, frastornando l'opinione pubblica».

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