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Passa il Rosatellum Si sgonfia alla Camera la rivolta "antifascista"

Prevale la voglia di weekend, solo i bersaniani fanno ostruzionismo. E adesso tocca al Senato

Passa il Rosatellum Si sgonfia alla Camera la rivolta "antifascista"

Con 375 voti a favore e 215 contrari, il Rosatellum supera di slancio l'ultimo ostacolo, quello del voto segreto finale.

Una ventina, forse, i voti «dissidenti» rispetto alle indicazioni di Pd, Fi, Lega e Ap che sostengono la legge. Che ora passa al Senato.

In mattinata si vota la terza e ultima fiducia, che passa con un voto in più per il governo della precedente: 309 si e 87 no. Nei corridoi, si fanno calcoli sui possibili franchi tiratori nel voto finale, e ci si interroga sui tempi della seduta fiume. I fieri oppositori del Rosatellum promettono ostruzionismo a oltranza e valanghe di ordini del giorno. Sembra certo il rischio che tutto slitti all'indomani. Alla fine, invece, è stato il diritto umano e politico al weekend lungo a vincere: la sollevazione democratica contro il «golpe fascista» del Rosatellum è stata abbreviata in modo da poter chiudere tutto giovedì sera e Mdp, Cinque Stelle e Fratelli d'Italia hanno accorciato ad hoc l'ostruzionismo, onde godersi il venerdì libero. Anche la battaglia suprema per la democrazia ha i limiti invalicabili.

Così, terminate le votazioni sugli articoli, il pomeriggio è trascorso pigramente nell'illustrazione, da parte di deputati bersaniani e grillini, di decine di ordini del giorno sui temi più svariati e fantasiosi: dalla equiparazione dell'età per l'elettorato passivo di Camera e Senato (tutti candidabili a 25 anni, per «avvicinare i giovani alla politica») al dimezzamento delle firme da raccogliere per presentare una lista, dall'introduzione di norme stringenti sul conflitto d'interessi per i candidati alla introduzione della parità assoluta di genere.

Le polemiche si sono accese su alcuni emendamenti aggiunti in extremis e accusati di essere ad personam dalle opposizioni. Due in particolare, che riguardano le stravaganti norme che regolano il voto degli italiani all'estero. Che purtroppo restano tali e quali, salvo una correzione in corsa a favore della deputata brasiliana del centrosinistra Renata Bueno: per consentirle di ricandidarsi si è abbassato da 10 a 5 anni il periodo in cui non si debbono ricoprire cariche elettive nel paese d'origine, e la Bueno era consigliere comunale in quel di Curitiba, nel Paranà. Ma a far rumore è stato un emendamento, subito ribattezzato dai grillini «salva-Verdini», che consente anche ai cittadini italiani di candidarsi nelle circoscrizioni estere. In base ad un ragionamento difficilmente comprensibile, gli oppositori del Rosatellum sono insorti contro l'emendamento presentato da Ap, sostenendo che grazie a questo escamotage Denis Verdini si sarebbe sicuramente candidato in Sudamerica, anziché nella più comoda Toscana. «Vergogna, è la ricompensa per i voti di Ala alla maggioranza», ha tuonato Toninelli (M5s), mentre un indignato Alfredo D'Attorre di Mdp chiedeva conto della faccenda al Pd.

Ironica la replica dei verdiniani: «Per essere eletti all'estero occorrono 60.000 preferenze, in un territorio in cui non si è mai stati: non mi pare una scappatoia semplicissima», fa notare Ignazio Abrignani di Ala. Taglia corto il relatore Emanuele Fiano: «Bellissime queste spiegazioni complottiste. Purtroppo invece si tratta solo di una norma che si impone per il criterio di reciprocità: i residenti all'estero possono candidarsi in Italia e gli italiani non potevano candidarsi nelle circoscrizioni estere». Tanto che sul punto, ricorda, «sono state sollevate obiezioni di costituzionalità». Verdini, insomma, non c'entra nulla, e l'emendamento passa.Alle 7 di sera iniziano le dichiarazioni di voto finali. «La legge è un marchingegno sconosciuto al mondo, fermatevi», geme Bersani. Gli replica Renato Brunetta, ricordandogli che «nessuna legge elettorale fa vincere senza voti», e che nel 2013 lui perse le elezioni nonostante il premio di maggioranza del Porcellum.

E invoca l'approvazione della nuova legge elettorale come «momento di pacificazione» dopo una legislatura «fallimentare» per le riforme.

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