Brexit

Il pentimento dei pro-Brexit: "Ora mi sento un po' in colpa..."

Le reazioni di chi ha votato per protesta. E ora piange

Il pentimento dei pro-Brexit: "Ora mi sento un po' in colpa..."

È un po' come quando si butta via il bambino con l'acqua sporca. O come quando ci si spara nei cosiddetti per far dispetto alla moglie. Il feeling (do you understand?) è lo stesso, il giorno dopo, tra i sudditi di Sua Maestà.

Sconcertati, spaventati, pentiti. Alcuni addirittura in evidente stato di choc, come certe domeniche mattina, quando al commissariato gli raccontano che la sera prima, al pub, dopo la quinta pinta di scura hanno fatto una serie di fesserie di cui hanno solo un vago ricordo. Sui social, sui giornali on line, nelle conversazioni private, tra i pendolari sulla «tube», va affiorando la paura, il disorientamento, l'ansia di chi voleva solo fare una pernacchia a quelli di Bruxelles; rimarcare il sentimento che Britannia rule the waves, come una volta, quando Londra signoreggiava i mari del mondo; e scopre invece di aver compiuto una coglionata di dimensioni storiche.

«Mai, neppure per un momento dice un pacato ragioniere cinquantenne con studio nella City- ho avuto la sensazione che il mio voto di protesta potesse pesare tanto. Vinceranno quelli del «remain», mi dicevo. Dunque mi posso togliere la voglia di far vedere il dito medio ai burocrati di Bruxelles che vogliono decidere anche quanti piselli devono stare in una scatola o qual è la misura minima di un cetriolo».

«Non so, non capisco, non mi rendo conto. Fino a ieri mi sembrava tutto chiaro. Ma ora comincio ad avere seri dubbi». Martin, scozzese di 24 anni, seduto in un bar davanti a una birra, l'ingresso della London Business School a qualche centinaio di metri da qui, si guarda sconsolato la punta delle scarpe, ammettendo di provare vergogna nei confronti dei suoi coetanei al di là della Manica. «Mi sento un po' in colpa... sono confuso, lo ammetto. E non credo di aver valutato bene le conseguenze della Brexit. Per esempio: qualcuno mi ha fatto notare che se prima bastava la carta d'identità per muovermi in Europa, ora potrei essere costretto a dotarmi di un visto, se voglio andare ad Amsterdam o a Roma. Un visto, capisce? Come se dovessi andare a Saigon, in Cambogia...».

Ora che le Borse sono volate a gambe per aria, e la sterlina mostra la sindrome dell'oca col fegato grasso il futuro fa spavento. L'inquietudine, il senso di vuoto, come quando ci si affaccia a un balcone senza ringhiera al quindicesimo piano, dominano tra i viaggiatori alla stazione di St. Pancras, da dove partono gli Eurostar per il continente. «Non so, non so, sono scioccata», ripete una biondina con gli occhiali. «È una grande sorpresa, sinceramente non credevo che potesse accadere», geme una trentenne davanti al microfono del cronista. Qualcuno ha scoperto che anche viaggiare per turismo sarà più caro. La sterlina fiacca rispetto all'euro significa vedere ridotto il proprio potere d'acquisto. Ma anche le tariffe delle compagnie aeree low cost, che sono state tali in virtù di accordi comunitari, potrebbero saltare. E il lavoro? Davvero molte banche «delocalizzeranno»? Davvero, come minacciava all'inizio di giugno l'a.d. di JP Morgan (16 mila dipendenti nel Regno Unito) potrebbe mandare a casa fino a 4 mila persone? Jamie, due figli in banca, ha già litigato con la vicina. «Quella bagascia ha votato leave.

Ma che ci posso fare? È la democrazia».

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