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Dai licenziamenti ai contratti: le trappole nascoste nel testo

La delega lascia ampi margini di manovra al governo: c'è il rischio di modifiche in Aula. E i tempi di approvazione non saranno brevi

Dai licenziamenti ai contratti: le trappole nascoste nel testo

Roma - I dubbi sono cresciuti negli ultimi giorni. La delega lavoro è ambigua e lascia ampi margini a modifiche che nulla hanno a che fare con una vera riforma dell'articolo 18 (Daniele Capezzone lo dice da giorni). Poi i tempi. Il sospetto, ad esempio del capogruppo alla Camera Renato Brunetta è che tutto finisca in un binario morto. L'impressione, insomma è che il premier Matteo Renzi abbia vinto la partita politica sulla minoranza Pd perdendo quella nel merito. Sull'articolo 18, ma non solo. Vediamo quali sono le trappole.

In cima alla lista c'è la novità post vertice Pd, cioè la possibilità che si reintroduca l'articolo 18 per i licenziamenti disciplinari. «Cioè tutti», scriveva ieri il Mattinale . Effettivamente, se si guardano le diverse tipologie di licenziamento, ci sono quelli discriminatori che nessuno ha mai tentato di sottrarre alle tutele dello Statuto dei lavoratori. Il reintegro per chi viene licenziato per razza, genere, scelte politiche e altro, non è mai stato messo in discussione. Poi ci sono quelli economici, ma questa tipologia è stata esclusa dal reintegro dalla legge Fornero. Resta appunto il licenziamento disciplinare, quello classico. Per giusta causa (un motivo grave, come il furto) o giustificato motivo (la ripetizione di comportamenti che danneggiano il datore). Reintrodurre incertezza su questa fattispecie significa riproporre il vecchio articolo 18.

I tempi. Dalla legge in corso di approvazione, si dovrà passare a un provvedimento fatto dal ministro. E, visti gli ampi margini lasciati dalla legge delega c'è il rischio che dell'iniziale spinta riformista non resti nulla. È sicuramente quello che sperano la minoranza Pd e la Cgil. Basta mettere insieme le dichiarazioni degli ultimi giorni del presidente Pd Matteo Orfini, che ha chiesto al governo «calma»; del segretario Cgil Susanna Camusso che ha annunciato una battaglia «dai tempi lunghi» sull'articolo 18. E, infine, l'intervento al vetriolo di Massimo D'Alema alla direzione Pd, quando ha chiesto a Renzi «un'azione di governo più riflettuta». Tradotte dal politichese: caro Renzi, frena, altrimenti ti facciamo deragliare.

Ma l'articolo 18 fa parte di una partita più ampia e altre proposte che sono in procinto di essere approvate rischiano di cure peggiori dei mali. Basti pensare alla promessa che il premier ha fatto al segretario della Fiom Maurizio Landini di varare una legge sulla rappresentanza. Una legge che vincoli le intese all'approvazione di una maggioranza troppo ampia, potrebbe rendere impraticabile la contrattazione aziendale, quindi penalizzare la produttività. Esattamente il contrario di quello che serve all'Italia. Per fare un altro esempio, una legge sulla rappresentanza avrebbe potuto rendere impossibile l'intesa sulla Fiat siglata da Cisl e Uil, ma non dalla Cgil.

La riduzione dei contratti. Una «mistificazione», era il commento che circola da giorni nel centrodestra, ma anche nel Ncd. L'introduzione di un contratto unico a tutele crescenti può essere un bene, ma non può esaurire tutte le esigenze delle aziende. Eliminare i contratti a progetto potrebbe ad esempio penalizzare piccole imprese di servizi e anche settori trainanti per l'Italia come il turismo. Altra cosa è combattere gli abusi.

In sintesi, il timore del centrodestra è che la delega lavoro faccia la stessa fine della Legge Fornero. Nata con grandi intenti riformatori, si ridusse in una riforma dell'articolo 18 che lo rese solo più complesso e barocco, senza rendere la nostra disciplina più europea. Poi diede una stretta sui contratti «precari» che penalizzò l'occupazione e i datori di lavoro onesti. Ma questa volta c'è un piccolo particolare, sottolinea spesso Brunetta, Ci sono l'Unione europea e la Banca centrale europea, che non sono più disposte a farci sconti o a darci credito solo sugli annunci.

A Renzi la scelta tra scontentare Fassina o Draghi.

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