Cultura e Spettacoli

"È più vicina alla morte che alla vita. Però è anche la virtù dei sognatori"

L'ingegnere-scrittore amante della filosofia (e delle battute): "Ormai ho fatto mia l'immobilità dinamica tipica dei napoletani"

"È più vicina alla morte che alla vita. Però è anche la virtù dei sognatori"

Luciano De Crescenzo ha esplorato tutto il mondo delle passioni umane, con l'aiuto dei filosofi che tanto ama, e oggi può permettersi di dire: Sono stato fortunato, come si intitola la sua autobiografia, che uscirà alla fine di giugno per Mondadori. E può parlare di un peccato insidioso come l'accidia, la «passione dell'indifferenza». Dice: «Non so chi l'abbia definita così; però, partendo dal presupposto che la vita è data dal movimento e la morte dall'immobilità, mi sento di dire che l'accidia è una posizione più vicina alla morte che alla vita».

A volte è intesa come pigrizia. C'è qualche suo personaggio che la incarna?

«Il primo che mi viene in mente è Benino, a mio avviso il più simpatico tra i pastori che è possibile trovare nel presepe napoletano. Benino non ha voglia di lavorare, dorme in continuazione, e a una prima impressione la sua presenza può sembrare inutile».

Invece?

«La realtà è che lui è il sognatore del presepe e, quando all'annunciazione della nascita di Gesù apre gli occhi, questo gesto rappresenta la rinascita a una nuova vita. Quindi non è detto che l'accidia sia sempre negativa».

È un po' accidioso?

«Non mi definirei accidioso. Di sicuro negli ultimi anni ho fatto mia l'immobilità dinamica, una caratteristica tipica del popolo napoletano che consiste nel dire e pensare di muoversi, restando perfettamente immobili, e ci riesco attraverso la scrittura».

Lati negativi dell'accidia?

«Probabilmente l'inerzia. Quella tendenza a essere passivi di fronte a ciò che capita nella vita».

Ha anche aspetti positivi?

«Ha presente il secondo principio della termodinamica? Secondo questo principio, ogniqualvolta trasformiamo la materia in energia, una parte di questa energia finisce con inquinare l'ambiente. Ciò significa che, quando prendiamo la materia e la sminuzziamo, la mischiamo con l'ambiente dando vita al disordine. Quindi, se mi agito molto e decido di superare la mia accidia, non faccio altro che aumentare questo disordine».

E che cosa dovremmo fare?

«Forse sarebbe preferibile far prevalere ciò che i greci definivano apàtheia, cioè il distacco dalla passione».

L'accidia è anche noia: lei tende ad annoiarsi?

«Fino a qualche anno fa, se qualcuno mi avesse chiesto che cosa preferivo tra la noia e lo stress, di sicuro avrei risposto lo stress. Con il tempo però ho cambiato idea, anzi sono arrivato alla conclusione che oggi la noia è sottovalutata. Credo che uno dei mali del nostro tempo stia proprio nell'incapacità di star bene anche quando ci si annoia».

Che cosa la fa annoiare?

«L'omologazione. Certi giorni mi sembra di vivere nella versione 3.0 della società descritta da Tommaso Moro nel suo Utopia: le case arredate tutte uguali, tutti vestiti allo stesso modo, tutti ossessionati dalla forma fisica, dall'essere connessi sempre, dall'avere quel modello di telefonino, quella macchina, quel computer...».

L'accidia è un po' il vizio dell'intellettuale?

«Non ne sono del tutto convinto. L'intellettuale è sì contemplativo, ma anche curioso e attento a ciò che gli accade intorno. Forse è il vizio di un particolare tipo di intellettuale: quello così preso da se stesso da essere completamente disinteressato a tutto il resto».

Se pensa all'accidia, a chi pensa?

«Al poeta aretino Francesco Petrarca. Nel suo Secretum confessa a Sant'Agostino di soffrire di accidia, a causa di quella sua incapacità di rassegnarsi di fronte all'idea che tutti dobbiamo morire. Un'apologia dell'accidia è Oblomov dello scrittore russo Goncarov, che ha individuato in essa una delle caratteristiche principali del suo popolo».

L'accidia è anche tristezza, malinconia. Lei è famosissimo per le sue battute...

«L'essere incline al buon umore, se così vogliamo dire, non esclude la malinconia. Anzi, le dirò di più, credo che possa essere considerata una specie di Purgatorio tra la felicità e la tristezza».

Questa caratteristica è legata anche allo spirito della sua città, Napoli?

«Ci sono alcuni versi bellissimi di Libero Bovio, l'autore della splendida Reginella per intenderci, che recitano così: Tutto è azzurro a Napoli. Anche la malinconia è azzurra».

C'è qualche altro peccato di cui si sente peccatore?

«Forse l'avarizia, anche se, più che avaro, preferisco definirmi pidocchioso: è un vizio che ho ereditato da mia madre, che aveva l'abitudine di non buttare via niente. Il pidocchioso è anche colui il quale può spendere grosse cifre immotivate per qualsiasi cosa, ma se sbagliano a dargli il resto di soli dieci centesimi è capace di dar vita a una polemica infinita. Ebbene, io sono così».

In fondo trova i sette peccati amabili?

«Più che amabili, direi accettabili. A parte uno, l'invidia. Eppure è un sentimento naturale degli uomini, incredibile a dirsi, proprio come l'amore...

».

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