Treno deragliato a Milano

Piera, Giuseppina e Ida: la strage delle donne e i sacrifici per il lavoro

Vittime del disastro due impiegate e un medico. L'ultima telefonata poco prima dello schianto

Era notte fonda quando la dottoressa Ida Milanesi era scesa dal treno alla stazione di Caravaggio. Quello che l'avrebbe riportata a casa, in tempo per la cena, l'aveva mancato perché i malati che lottano per sopravvivere non hanno orari. Poche ore in famiglia, col marito medico e con la figlia che studia medicina. Ieri mattina era ancora buio quando la Milanesi si è ripresentata sui binari. L'orario ufficiale marca le 6.34. Cinque minuti prima, alle 6.29, sullo stesso convoglio aveva preso posto Giuseppina Pirri che abitava a Capralba, a pochi chilometri di distanza ma in provincia di Cremona. Correvano verso la metropoli e il lavoro, seguivano la stessa rotta anche se non si conoscevano, come Pierangela Tadini, una signora di 51 anni dalla faccia rotonda e bonaria, i grandi occhiali su un viso rassicurante, la residenza a Misano di Gera d'Adda, a due passi da Caravaggio e dal celebre santuario, calamita del turismo religioso.

La radioterapista sessantunenne andava al Besta, tempio della medicina, per dare una chance a uomini e donne colpiti dal cancro. Giuseppina, che aveva solo 39 anni e abitava con i genitori e la sorella, doveva raggiungere l'ufficio a Sesto San Giovanni, ai bordi della città. Recupero crediti la sua faticosissima missione, dopo aver conseguito il diploma in ragioneria. Pierangela Tadini, impiegata, non poteva fare tardi, cosi come la figlia Lucrezia, 18 anni, che doveva arrivare alla sua classe di liceo a Milano. E che era seduta al suo fianco.

Due ore dopo Lucrezia è un filo di voce che chiama la nonna Luisa: «La mamma è morta». Lei è in ospedale, ma in discrete condizioni. Ha preso una botta forte, ma se la caverà. Due ore dopo, al Besta hanno già l'atroce dubbio che il peggio si sia compiuto. «Ida - racconta Maria Grazia Bruzzone, direttore di neuroradiologia - arrivava sempre prima delle 8 per stare vicina ai suoi pazienti. Anche se la sera prima era uscita tardissimo. Ma lei era fatta cosi: non si preoccupava delle troppe ore passate in ospedale, non conosceva nemmeno il sabato e la domenica, pure quando era in vacanza si teneva in contatto con le persone in cura. Cosi quando abbiamo visto che non arrivava ci siamo allarmati. Abbiamo saputo dell'incidente, abbiano telefonato agli ospedali, ma non era fra i feriti lievi, non c'era, non si trovava. Poi abbiamo capito». Il Besta perde un dirigente di punta della radioterapia e una donna dall'umanità straordinaria.

Due ore dopo l'ultimo, esile stelo di speranza è stato reciso anche a Capralba. «Mia moglie - racconta Pietro Pirri - era al telefono con nostra figlia. A un certo punto lei ha gridato: Mamma, aiuto, il treno sta deragliando». Scappa, scappa, le ha risposto mia moglie, ma non si sentiva più nulla». Solo il silenzio che annuncia la sventura. Pietro Pirri esce di casa di corsa, si precipita verso Pioltello e il luogo della catastrofe. «Giuseppina era ancora incastrata fra le lamiere del vagone. Mi hanno detto che non ce l'aveva fatta», ma lui aveva già capito e, soffocato da quel dolore imparabile, cercava dentro di se un modo decente per dirlo alla moglie angosciata.

Tre donne lanciate dentro una routine che non ammetteva pause o ritardi. Ora c'è solo il mulinare dei ricordi. C'è un padre che vaga davanti alle telecamere piazzate davanti all'obitorio, frastornato e incredulo, come sempre quando il destino apparecchia un trabocchetto del genere: «Giuseppina si lamentava sempre perché i treni erano sempre rotti e sempre pieni». A Vanzago, la signora Luisa Sala fronteggia il cronista misurando le parole: «Pierangela si era separata da mio figlio qualche anno fa e si era trasferita a Misano con Lucrezia, ma era una brava donna». Anche se i rapporti si erano diradati e le distanze erano cresciute. Da un puntino all'altro, quello sbagliato, del grande hinterland. Laggiù verso la grande cupola della chiesa, visibile a chilometri di distanza nella campagna lombarda. «Il papà di Ida - spiega la dottoressa Bruzzone - gestiva il ristorante del santuario. Dalla fine degli anni Ottanta, quando ci siamo conosciute giovani borsiste, quante volte abbiamo festeggiato a Caravaggio le tappe della nostra vita».

Un'esistenza che ora è sigillata in un album.

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