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Pisapia, l'avvocato galantuomo che non lascerà tracce a Milano

La sua rivoluzione arancione avrebbe dovuto ribaltare la città Verrà ricordato per il registro delle coppie di fatto e il Gay pride

Pisapia, l'avvocato galantuomo che non lascerà tracce a Milano

Un mondo avvelenato dagli intrighi di Palazzo e di partito da cui l'avvocato gentiluomo Giuliano Pisapia vuol scappare. Perché se per uno che la sapeva lunga come Salvatore detto Rino Formica «la politica è sangue e merda», non tutti sono disposti ad affondarci le mani. Di certo non Pisapia, visto che ad attenderlo c'è lo studio fondato dal padre e maestro del foro Gian Domenico da cui traeva una dichiarazione dei redditi ben più pingue dello stipendio da sindaco.

Il problema (non per lui ma per i milanesi) è che la rivoluzione arancione che doveva ribaltare Milano dopo vent'anni di centrodestra, non lascerà segno. Quello lasciato da Gabriele Albertini e Letizia Moratti il cui bilancio è mostruoso: il maggior numero di stazioni di metro, la Scala restaurata a tempi record, il teatro degli Arcimboldi in una Bicocca rigenerata, i grattacieli delle archistar presi d'assalto da multinazionali, cinesi e sceicchi, la Fiera a Rho-Pero, l'aeroporto di Malpensa, i tre nuovi depuratori e quell'Expo che ha fatto diventare Milano la prima meta turistica del 2015 secondo il New York Times . Tutto senza che la giunta Albertini abbia ricevuto un solo avviso di garanzia.

Il lascito di Pisapia? Quel registro delle coppie di fatto voluto con tenacia per pagare il debito a quella sinistra-sinistra a cui doveva l'elezione ed esibito come un trofeo alle oscene parate del Gay pride a cui per la prima volta ha concesso i patrocini del Comune. Un migliaio i beneficiari, non molto rispetto al milione e 300mila milanesi. Ora, ha promesso Pisapia, la battaglia sarà per la registrazione dei matrimoni omosessuali celebrati all'estero della cui utilità nelle periferie e nei caseggiati popolari presi d'assalto da un'immigrazione ormai insostenibile non sentivano particolare bisogno. E non è un caso che un anno prima della scadenza, Pisapia abbia annunciato il suo gran rifiuto. Lasciando di fatto Milano orfana. Difficile andare a chiedere il voto a quei quartieri dove non si è mai fatto vedere, delegando tutto il lavoro nel sociale all'assessore Pierfrancesco Majorino. Un giovane Pd rampante (anche se da un pezzo sulla scena) che infatti adesso aspira a prendere il suo posto. Così come Emanuele Fiano, ma anche Umberto Ambrosoli. Mentre Renzi vuol saltare le primarie e candidare direttamente un manager e non un politico come il commissario Expo Giuseppe Sala. Ma anche un ex assessore cacciato da Pisapia come l'architetto Stefano Boeri (il rivale sconfitto alle primarie) ora vuole tornare in corsa. Nel frattempo si è dimessa Ada Lucia De Cesaris, la vice sindaco e lady di ferro. Un groviglio da cui il Pd uscirà con le ossa rotte. Offrendo al centrodestra, dove prende quota il filosofo Paolo Del Debbio, l'occasione per riprendersi Milano.

Nel frattempo i giornali di regime incensano Pisapia e una Milano rinata grazie alla Darsena restaurata, ai quartieri modello, all'Expo. Dimenticando che l'Expo l'ha vinta la Moratti e il progetto della Darsena ha la firma di Albertini. Lo stesso che combattè la sinistra che lo accusava di voler cementificare Milano con il progetto di Porta Nuova, sotto i cui grattacieli ora il Pd vuole organizzare la Festa dell'Unità. Che caos.

Troppo per l'avvocato gentiluomo. A cui qualche appunto va fatto.

Non aver trovato qualche minuto per partecipare alla cerimonia per i morti delle foibe e il coraggio di indossare la fascia di sindaco al ricordo di Sergio Ramelli, il diciottenne sprangato a morte dagli assassini di Avanguardia operaia.

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