Cronache

Il predone di tir e gli ex complici. E quel senso perenne d'ingiustizia

Le vittime l'avevano fatta franca, lui no. Mirava anche ai giudici

Il predone di tir e gli ex complici. E quel senso perenne d'ingiustizia

La giustizia era arrivata, ma lui non l'aveva accettata. Rifiutava le sentenze, Cosimo Balsamo, il pregiudicato dall'aria torva nelle foto finite in rete. E alla fine ha provato a trasformare la giustizia in un rito sommario, a misura del proprio ribollire. E delle proprie viscere. Ha inseguito come prede i complici del passato, diventati nella sua testa sempre più spietata e sempre meno lucida i nemici di oggi. La prova provata di un sistema malato, squilibrato, dove lui si era convinto di essere, addirittura, un perseguitato.

Nei primi anni Duemila, Balsamo e gli altri protagonisti di questa sporca giornata erano entrati nella banda dei Tir. Portavano via i bisonti della strada. Depredavano le aziende di tutto il Nord Italia e riuscivano, come prestigiatori, a far svanire tonnellate di metalli e acciaio, riempiendo i Tir, come arche di Noè, con il materiale rubato.

Poi la polizia li aveva beccati ed erano iniziati i processi. Nel 2009, emerge ora dal suo fascicolo, su Balsamo si era abbattuta una legnata: una condanna a 7 anni e 4 mesi per associazione a delinquere finalizzata al furto e alla ricettazione. Sul primo capo d'accusa niente da dire: l'aveva accettato senza fiatare, perché quello era il suo mestiere e l'aveva pure confessato. Ma la ricettazione, quella no. Un tipo tignoso come lui si era impuntato, anche perché James Nolli, l'ultima vittima del raid, se l'era cavata con il solo furto. Meno grave.

Non proprio un dettaglio da azzeccagarbugli: sulla base di quel reato più pesante era scattato il procedimento di sequestro e poi di confisca dei suoi beni. Una pena che a Nolli era stata risparmiata. E, insomma, Balsamo si era convinto di aver pagato per colpe non sue e di aver subito un trattamento speciale. Ce l'aveva con Nolli. Ce l'aveva con Giampiero Alberti, pure coimputato. E ce l'aveva con Elio Pellizzari, abbattuto come un cane. Gli altri, bene o male, si erano rifatti una vita, avevano intrapreso nuove attività, erano diventati imprenditori. Lui no, era rimasto incastrato in quel passato, stretto come una botola. Ce l'aveva con i giudici, con la giustizia, con il mondo intero.

Aveva ingaggiato una faticosissima partita per correggere quel suo destino infausto e aveva presentato una richiesta di revisione alla corte d'Appello di Venezia, come se ne avanzano a centinaia in un'Italia sempre più gonfia di rancore e di bulimia giudiziaria.

Ma in parallelo aveva iniziato ad attrezzarsi per la giustizia fai da te. Avvocati e carte bollate. Ma anche avvertimenti e minacce. Nel 2011 aveva preso di mira un giudice di Brescia che aveva aggredito, sulla base della pena inflittagli, il suo patrimonio. E gli aveva portato via un immobile. Con audacia sfrontata gli aveva riempito il cestino della bici di cartucce e proiettili. E, a quanto sembra, aveva accompagnato il «regalo» con un livido biglietto, intinto nel risentimento. Aveva patteggiato quell'episodio inquietante, sull'orlo del precipizio, ma non si era fermato a riflettere

I suoi esposti erano naufragati. Venezia e poi la Cassazione gli avevano tolto ogni speranza. E lui si era ritrovato sempre più solo, sprofondato nei propri guai e nelle proprie ossessioni. Smarrito e sempre più incattivito. Le confische andavano avanti, un pezzo dopo l'altro. Implacabili. Cosi, a gennaio scorso, aveva provato a dare la dimensione dello show al dramma che lo stava consumando. Era salito sul tetto, maledetto, del palazzo di giustizia di Brescia, la sua città adottiva, l'epicentro delle sue disavventure.

Aveva detto che si sarebbe buttato di sotto, che l'avrebbe fatta finita, invece l'avevano convinto a scendere.

Ma era solo una tregua, in un'escalation inarrestabile. SteZu

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