Politica

"Il presidente fu irremovibile. Costrinse il governo a schierarsi con Sarkozy"

L'allora capo del Senato ricostruisce l'incontro in cui il Quirinale impose la guerra al Paese

Il capogruppo al Senato Renato Schifani parla con Silvio Berlusconi
Il capogruppo al Senato Renato Schifani parla con Silvio Berlusconi

Finora aveva taciuto. «Ma ora - spiega Renato Schifani - l'amore per la verità mi costringe a rompere il silenzio». L'ex presidente del Senato ha letto l'intervista concessa da Giorgio Napolitano a Repubblica e quella ricostruzione lo lascia perplesso. Di più: «C'è una verità formale e una sostanziale. Napolitano privilegia le forme ma nei fatti fu lui a spingere l'Italia verso la guerra con la Libia».

Veramente, Napolitano dice che la responsabilità di quell'intervento è da attribuire al governo Berlusconi.

«Mi dispiace, ma le parole del Presidente emerito mi stanno strette».

Per Salvini dev'essere addirittura processato.

«Lasci perdere Salvini. Piuttosto dobbiamo intenderci su quel che successe la sera del 17 marzo 2011».

Che cosa accadde?

«Eravamo all'Opera di Roma. Muti dirigeva il Nabucco. Alla fine del primo atto, il presidente della Repubblica ci chiese di trasferirci in un salottino riservato».

Chi c'era?

«Il capo dello Stato, il sottoscritto, il premier Silvio Berlusconi, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il consigliere Bruno Archi, Gianni Letta e Paolo Bonaiuti».

Dunque?

«Archi ci mise in contatto con il ministro degli Esteri Franco Frattini che era a New York. E Frattini ci dipinse un quadro drammatico».

In sintesi?

«L'Onu aveva votato una risoluzione che istituiva la no fly zone sula Libia. Ma soprattutto Sarkozy ci aveva fatto sapere che l'indomani avrebbe annunciato al mondo l'intervento militare e l'invio dei Mirage su cielo di Tripoli».

I tempi erano contingentati?

«Il momento era assolutamente drammatico, forse il più drammatico della mia presidenza. Sarkozy ci poneva davanti a una sorta di fatto compiuto: intervenire con la coalizione, che comprendeva Londra e Washington, oppure rimanere ai margini. E ci dava un ultimatum, poche ore per decidere».

Un contesto difficile?

«Una situazione complicata e fu in quel clima di ansia che Napolitano fece il passo decisivo».

Il presidente espresse la sua opinione?

«Napolitano disse testualmente: L'Italia non può rimanere fuori».

Berlusconi?

«Soffriva, era visibilmente contrariato, stava quasi male. Si capiva benissimo che non condivideva per niente quella posizione».

Il profondo disagio del Cavaliere lo riconosce anche Napolitano.

«Sì, ma il presidente, che era anche il capo supremo delle Forze armate, con quell'intervento chiuse la discussione. Pollice verso, partita finita».

Non ci fu un contraddittorio?

«Il contraddittorio era nei fatti. Berlusconi era in sofferenza, del resto lui aveva firmato nel 2008 il trattato di Bengasi che ci sarebbe costato 5 miliardi di dollari in vent'anni ma che garantiva numerosi vantaggi al nostro Paese: la partnership dell'Eni con i libici per l'estrazione del petrolio, il controllo delle coste, l'ingresso di imprese italiane sulla piazza di Tripoli. Ma poi era affranto sul piano personale: capiva che si andava incontro ad un disastro e poi lui aveva dato la sua parola a Gheddafi».

Napolitano sostiene che non c'erano alternative.

«Il presidente avrebbe potuto raccogliere quei dubbi, far proprie quelle domande, riflettere su quei diktat. Berlusconi intuiva che le scelte di quella notte, ammantate dal perbenismo della lotta al dittatore sanguinario, erano in realtà dettate dagli interessi economici dei vari Paesi. Per di più a danno dell'Italia. Invece la palla passò al Parlamento per i passi formali. Napolitano ha ragione sulla carta, ma in realtà fu lui a portarci in guerra. E il Cavaliere fu lasciato solo.

Ma oggi possiamo dire che aveva ragione».

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