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La Casta del Csm salva le carriere di Bruti e Robledo

Il primo andrà in pensione, l'altro a Venezia come sostituto fino all'addio del capo

La Casta del Csm salva le carriere di Bruti e Robledo

Gli esposti e i controesposti. Le doppie indagini e i doppi pedinamenti. Una spaccatura imbarazzante come non si era mai vista dentro la procura più importane d'Italia. Edmondo Bruti Liberati versus Alfredo Robledo. Sorpresa: il Csm dovrebbe chiudere la durissima querelle senza punire né l'uno né l'altro, come se si fosse trattato di uno scherzo. O qualcosa del genere. Bruti Liberati rimarrà sulla sua poltrona di capo della procura milanese fino alla fine dell'anno quando andrà in pensione. Robledo, invece, emigrerà alla procura generale di Venezia per non incrociare più gli sguardi del suo avversario nei lunghi corridoi dechirichiani del Palazzo di giustizia ambrosiano. Ma nel 2016 tornerà al punto di partenza non una ma due volte: non solo rientrerà nel capoluogo lombardo ma con ogni probabilità gli verrà riaffidata la bacchetta, che Bruti Liberati gli aveva strappato, di capo del delicatissimo pool anticorruzione.

Sembra impossibile ma questa è la soluzione, salomonica e insieme corporativa, partorita da Palazzo dei Marescialli. E ormai in dirittura d'arrivo. L'onore dei contendenti è salvo, anche se il prestigio dell'istituzione è in caduta libera. La guerra fra il procuratore e il suo aggiunto rappresenta un unicum nel pur disastrato panorama della giustizia milanese. Per mesi e mesi i due si sono delegittimati a vicenda in una sorta di telenovela giudiziaria con continui colpi di scena. Fascicoli importantissimi, finiti sulle prime pagine dei giornali, dal caso Sea alle indagini su Formigoni e gli appalti per Expo, sono stati oggetto di un corpo a corpo sbalorditivo: avocazioni contestatissime, carte consegnate con ritardi incomprensibili, presunte dimenticanze, doppie indagini parallele o sovrapposte, ritardi e accelerazioni nelle iscrizioni nel registro degli indagati, a Milano è successo di tutto. E poi gelosie e giudizi taglienti come la lama di un coltello. Una divisione senza ritorno, un clima sempre più faticoso in un ufficio che per anni aveva coltivato, pur fra asprezze interne, il mito della compattezza. E invece no. Vent'anni dopo Mani pulite, quando Di Pietro interpretava il ruolo del solista ma Borelli e D'Ambrosio tenevano insieme i cavalli di razza della squadra, la procura di Milano è diventata il ring di un match interminabile.

Fosse accaduto all'estero o in un'azienda privata chissà cosa sarebbe successo. Più di un magistrato sottovoce aveva auspicato una conclusione quasi obbligata: allontanare tutti e due i protagonisti. È andata in un altro modo. Bruti Liberati è rimasto avvitato alla sua poltrona e la lascerà solo al compimento del canonico settantesimo anno. Il suo vice andrà a Venezia per una breve stagione, dopo aver ventilato l'idea di trasferirsi, sia pure temporaneamente, alla Procura generale di Milano, scendendo solo un piano di scale. Insomma, i due se la sono cavata senza un graffio. Il Csm ha steso il suo mantello protettivo sopra lo scandalo, annacquando ogni ipotesi di sanzione. Era rimasta in piedi, fra tante voci, quella di un trasferimento per incompatibilità ambientale di entrambi o del solo Robledo. Senza alcuna conseguenza sul piano disciplinare e della carriera. Ma alla vigilia di una possibile decisione sull'avvio della procedura, la Prima commissione si è fermata. Scavalcata in corsa dal «lodo Legnini», ovvero dalla mediazione realizzata da Giovanni Legnini, politico navigato e sottosegretario alle Finanze del governo Renzi prima di diventare vicepresidente del Csm. Ormai è fatta, o quasi. «L'obiettivo era quello di ripristinare la serenità a Milano: se l'ipotesi si concretizzerà tale obiettivo sarà raggiunto. Poi fra un anno vedremo». Unica obiezione: il pool anticorruzione, orfano di Robledo, è senza capo e alcuni pm premono per la nomina. Subito.

Senza aspettare la seconda puntata.

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