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Il processo farsa in Consiglio dei ministri: la Lega difende ma sacrifica il suo «pedone»

Il premier fa il giudice: "Il Paese ci guarda". E il "pm" Di Maio esulta: "Ho vinto"

Matteo Salvini e Armando Siri
Matteo Salvini e Armando Siri

Roma - Col Consiglio dei ministri di ieri si è inaugurato un nuovo genere di serial tv: dal frequentatissimo «legal drama», che si svolge nelle aule di tribunale, all'innovativa «legal farce», che - sotto forma appunto di farsa - si svolge a Palazzo Chigi.

Ovviamente tutto era stato già deciso prima: Salvini ingoia ancora una volta e sacrifica il suo pedone Siri, Di Maio può scondinzolare annunciando vittoria «morale», e in cambio fa lanciare alla Lega il ballon d'essai di una futuribile flat tax, che dovrebbe distrarre l'attenzione dalle vicende giudiziarie.

Ma la sceneggiata deve andare in onda, per il diletto del popolo e l'audience dell'esecutivo. Così, verso le dieci e mezza del mattino, il cast si raduna attorno al tavolone ovale del CdM, e il premier Conte, avvolto nella sua toga immaginaria di presidente del tribunale (fossimo a Londra avrebbe potuto sfoggiare anche una parrucca incipriata), riassume il caso e illustra le motivazioni della decapitazione per l'indagato Siri. «Il paese ci guarda», annuncia solenne, quindi Siri deve morire, e lui è pronto a firmare la sentenza: «Ho la fiducia di tutti?», chiede drammatico (solo dopo essersi assicurato di averla, ovviamente).

Poi la parola va alla difesa: si alza l'avvocata Giulia Buongiorno (a tempo perso anche ministro della PA) e pronuncia la sua arringa appassionata in favore del sottosegretario imputato. «In uno stato di diritto non è possibile decidere delle sorti di una persona da un titolo di giornale», rimarca l'esponente leghista. Una tesi ribadita anche da Matteo Salvini (che pochi giorni fa aveva invece chiesto dimissioni immediate per la presidente dem della regione Umbria Catiuscia Marini, e nuove elezioni). Stavolta però Salvini fa il garantista a 24 carati: «I processi si fanno in tribunale - tuona - credo che in Italia ci siano sessanta milioni di presunti innocenti fino a prova contraria, e se qualcuno pensa che ci siano sessanta milioni di presunti colpevoli torniamo indietro». Tesi anti-giustizialista che viene fatta recapitare dal Carroccio, attraverso le consuete veline WhatsApp, anche fuori dal palazzo: «La Lega difende un principio: non può esserci un automatismo tra indagini e colpevolezza. È un principio di civiltà giuridica che vale per tutti», sia pur - par di capire - con le consuete eccezioni, modello Umbria. Si alza poi Gigino Di Maio, nei panni del procuratore di Stalin Vyinskij: «Il Governo del cambiamento (una volta si chiamavano Soviet, ndr) non protegge chiunque, ma quando calano delle ombre su un suo membro questo governo interviene», declama. La revoca di Siri, incalza, «non è una nostra vittoria ma la vittoria degli italiani onesti». Se poi Siri venisse prosciolto, aggiunge, potrà tornare. Salvini abbozza: «Se volete prendere questa decisione, ne prendo atto». Sipario: la farsa legale è finita. E Salvini si stringe nelle spalle: «Con un sottosegretario in più o in meno l'Italia va avanti».

Bye bye Siri.

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