Mondo

Lo psicologo con il sogno di sfamare il mondo

La madre a Palermo: "Non voglio parlare, ditemi solo dov'è il corpo di mio figlio"

«Welth unger hilfe» ha un suono aspro e quasi impronunciabile, ma in italiano è morbido e carico di speranza, «Aiuto alla fame nel mondo». Era il nome dell'ong tedesca (organizzazione fondata nel 1962 in coordinamento con la Fao) per la quale Giovanni Lo Porto lavorava al momento del sequestro. Il 19 gennaio del 2012 venne rapito assieme al collega olandese Bernd Johannes Muehlenbeck da quattro uomini armati nel distretto di Multan della provincia centro-occidentale pachistana del Punjab. Entrambi stavano mettendo in atto un progetto di sostegno per le popolazioni colpite dalle inondazioni del 2011. Il Pakistan è stata l'ultima tappa del lungo impegno professionale e umano di questo psicologo di 38 anni, originario del quartiere Brancaccio di Palermo, laureatosi a Londra e specializzatosi in Giappone. Già nel 2005 aveva operato dalle parti di Islamabad come volontario della Croce Rossa, e negli anni successivi aveva prestato il suo impegno in scenari critici, come nell'isola di Haiti rasa al suolo dal devastante terremoto del gennaio 2010, oppure nella Repubblica Centrafricana, dilaniata da una sanguinosa guerra civile. Sempre in prima linea, nonostante le raccomandazioni del padre Vito e della madre Giuseppina, che per il figlio avrebbero preferito un impiego da medico ospedaliero. La donna in questi tre anni e tre mesi ha mantenuto accesa la fiammella della speranza di poterlo riabbracciare. Dall'appartamento al piano rialzato del palazzo di via Pecori Giraldi chiede di essere lasciata in pace «con il mio dolore. Preferisco non parlare con nessuno. L'avevo visto dieci giorni prima che tutto accadesse. Ditemi solo dov'è il corpo di mio figlio». Poi si interrompe. Per lei parla l'amica Rosa Lo Nardo, che vive sullo stesso pianerottolo. «Andavo spesso a fare la spesa per loro. Nessuno se la sentiva di uscire. Giusi è distrutta non vuole parlare con nessuno. Da tre anni e 3 mesi non vedeva il figlio, ma aveva sempre la speranza nel cuore di riabbracciarlo. Mi chiedo come sia possibile che la notizia della morte sia arrivata a quattro mesi dall'accaduto». Se lo domandano parenti e amici, gli stessi che avevano fatto il possibile per venire a capo di una vicenda complessa. A partire da Nino, uno dei quattro fratelli di Giovanni, che ai cronisti domanda con una punta di ironia: «Obama ha chiesto scusa? Grazie». Qualche settimana dopo il rapimento era stato diffuso un video nel quale si vedeva il solo Muehlenbeck chiedere di accogliere «le richieste dei mujaheddin. Siamo in difficoltà». Parlava al plurale, fornendo una prova, seppur minima, che anche Lo Porto fosse ancora in vita. Poi però era calato un silenzio carico di cattivi presagi, squarciato nell'ottobre del 2014 dalla liberazione del cooperante olandese in una moschea alla periferia di Kabul. Al rientro in patria aveva raccontato che da un anno i sequestratori avevano spostato Lo Porto in un'altra zona a lui sconosciuta. Da quel momento le Ong avevano indirizzato lettere all'allora presidente Napolitano, esortando il capo dello stato a fare tutti gli sforzi possibili per riportare Giovanni a casa. Appelli risultati inutili, come l'hasthag #vogliamogiovannilibero lanciata dalla piattaforma di petizioni on-line «Change».

Da tutto il mondo arrivarono video e fotografie per testimoniare solidarietà, speranza e vicinanza, frantumate dalla triste notizia di ieri.

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