Politica

Pugno duro di Copenaghen Stop ai treni dalla Germania

La Danimarca chiude le porte ai migranti In Ungheria la polizia revoca i blocchi nel campo di Rozske: orde di profughi invadono le strade

RomaManca l'Europa e manca l'unione. «Finito il tempo del business as usual , i numeri sono spaventosi ma non dobbiamo avere paura: serve audacia e concordia, gli immigrati devono diventare una risorsa per una Ue che invecchia e che ha bisogno di nuovi talenti». Una manciata di ore dal discorso sullo stato della Ue, e quegli slogan scelti dal presidente Jean-Claude Juncker si materializzano nelle campagne dello Jutland, risuonano beffardi e crudi su trecento opliti della migrazione. Occupano, in massa critica, la superstrada che dal confine tedesco si snoda fino a Malmoe, Svezia: la terra promessa. Almeno in teoria, visto che il gruppo va a piedi e non accetta i tempi dilatati della burocrazia danese, cieca come tutte le burocrazie, e incapace di guardare in faccia a questi uomini stremati.

È la Svezia, la terra dei sogni per questi Trecento - nient'affatto forti, o troppo giovani o troppo vecchi (ci sono anche tante donne) - che scappano da una scuola adibita a centro d'accoglienza a Padborg, in attesa di una registrazione. Reclamano il maggiore dei paesi scandinavi perché le leggi sull'asilo sono più permissive di quelle della Danimarca, spasmodicamente tesa a proteggere il più alto tenore di vita del Continente. Europa dalla quale la Sirenetta danese si isola per un intero pomeriggio: bloccata l'autostrada, sospeso il traffico ferroviario con la Germania (la polizia non riusciva a compiere le corrette operazioni di registrazione e alcuni dei migranti, rifiutandosi, tentano la fuga, ma sono arrestati). Negato anche l'attracco a una nave della compagnia Scandilines , perché a bordo ci sono cento rifugiati.

La marcia nell'estremo Nord d'Europa, con la reazione danese, dice così assai di più e forse persino meglio di Juncker quale sia il reale stato di confusione e resistenza che si respira in gran parte della Ue. Altro che «basta muri, basta scaricabarile». Il piano di redistribuzione dei profughi, illustrato in mattinata - 15.600 gli ulteriori migranti che lasceranno l'Italia -, viene subito respinto dal premier britannico Cameron. Londra resterà fedele al proprio approccio: non facendo parte di Schengen, non raccoglie l'invito a «condividere il peso». Peso che Juncker accresce di altri 120mila profughi, oltre ai 40mila di maggio, riconoscendo che «non può essere sopportato solo dall'Italia, dalla Grecia e dall'Ungheria». Ma i paesi dell'Est, il cosiddetto gruppo di Visegrad , resiste. La Slovacchia ha già detto «no» alle quote obbligatorie e vincolanti chieste dalla Merkel e annunciate da Juncker con tutto il consueto corredo di clausole, regole e meccanismi minuziosi tipici della mentalità dei funzionari di Bruxelles. Il presidente Ue si dice sicuro di convincere polacchi, ceki e baltici ad accettare (in totale toccheranno loro circa 15mila profughi, 10mila in meno della Francia) ma s'intuisce che sarà soprattutto la pressione tedesca a farsi carico della difficile opera di conversione. Ma in serata riesplode la bomba Ungheria: la polizia ungherese ha tolto i blocchi e nel campo di Rozske è il caos. I profughi hanno iniziato a camminare nei campi e sulle strade circostanti.

In ogni caso il governo di Berlino è determinato come un Panzer, e puntella con un comunicato il piano-Juncker: «Siamo assolutamente in linea».

Così che ai 780 milioni di euro stanziati per quote destinate a diventare via via permanenti, si aggiungono 1,8 miliardi per un trust-fund volto ad affrontare le cause profonde delle migrazioni dall'Africa.

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