Politica

Quando Napolitano e i democratici erano in prima linea contro Gheddafi

«Il 91 per cento dei migranti arriva dalla Libia e questo perché la comunità internazionale ha bombardato senza preoccuparsi del dopo. Se n'è lavata le mani». Parola di Matteo Renzi, presidente del consiglio, ospite martedì di Quinta Colonna su Rete 4. Peccato che nel 2011, quando abbiamo bombardato Gheddafi, i più decisi ad abbattere il colonnello furono proprio il Pd di Renzi e il presidente Giorgio Napolitano, futura chioccia del premier. Silvio Berlusconi, capo del governo di allora, era restìo a spedire i caccia su Tripoli tallonato dalla Lega, che si era opposta con forza all'intervento auspicando la neutralità scelta dai tedeschi. Napolitano, ex funzionario di lunga data del Pci, ma alleato di ferro degli Usa nella guerra libica, aveva spinto al massimo l'intervento italiano con la famosa frase: «Non lasciamo calpestare il Risorgimento arabo». Il risultato sono le bandiere nere del Califfo a Derna e Sirte.

L'«acuta» lungimiranza del capo dello Stato, che ci ha portato alle ondate attuali di profughi e clandestini dalla Libia, aveva dato il via libera all'interventismo del Pd di Pierluigi Bersani. Il giovane Renzi era troppo occupato a preparare la rottamazione per rendersi conto, che proprio il suo partito abbracciava la rischiosa linea «della comunità internazionale senza preoccuparsi del dopo» come ha detto sugli schermi Mediaset. Nel 2011 la Francia del Napoleone d'Oltralpe, Nicholas Sarkozy, incalzava e la sinistra italiana scattava sull'attenti dietro la foglia di fico dell'Onu.

Renzi avrebbe fatto meglio a informarsi prima con un suo ministro, Dario Franceschini, allora presidente dei deputati democratici, che era in prima linea per intervenire in Libia. Bersani criticando i dubbi di Berlusconi aveva le idee chiare: «Noi, invece, lavoriamo perché l'Italia abbia la sua voce con dignitá. Non siamo bellicisti, andiamo lì per evitare il massacro. Tutto il resto si risolve con la democrazia». Queste frasi rilette oggi fanno ridere per non piangere. Massimo D'Alema alla Camera faceva l'alfiere della risoluzione Onu, che apriva la strada ai bombardamenti contro i nostri interessi in Libia. Il 4 maggio del 2011 Bersani ed il Pd fecero votare una mozione che in pratica obbligava il governo all'intervento. Un'altra pro bombe era Anna Finocchiaro. La capogruppo Pd al Senato suonava la carica: «L'intervento è necessario perché senza un cessate il fuoco delle truppe fedeli al Rais nessuna transizione democratica può avviarsi». E il risultato fu disastroso, come dimostra la situazione odierna certificata dalla scudiera di Renzi in Europa. «Avremmo potuto evitare ciò che accade in Iraq e Libia con una attenzione maggiore. Bisogna guardare alle cose importanti con una visione a lungo periodo, prevenendo le crisi», sostiene l'Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini. Il 20 giugno, un mese dopo l'inizio dei raid alleati, che non avevano piegato in fretta Gheddafi, come ci si aspettava, era sempre Napolitano a tenere la barra dritta per non fermare le bombe. «È nostro impegno, sancito dal Parlamento, restare schierati in Libia - tuonava il presidente - con le forze di altri paesi che hanno raccolto l'appello delle Nazioni Unite».

E adesso ci lecchiamo le ferite non sapendo che pesci pigliare per risolvere il caos sull'altra sponda del Mediterraneo.

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