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Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa

Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici

Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa

Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi.

É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni.

Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irreferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero.

Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni.

Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.

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