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Un'inchiesta basata sul nulla che ci è costata una fortuna

Centinaia di migliaia di euro spesi, decine di funzionari statali coinvolti per un processo senza prove

Un'inchiesta basata sul nulla che ci è costata una fortuna

Possono quattro anni di inchiesta che ha coinvolto decine e forse centinaia di funzionari statali, che è costata centinaia di migliaia di euro, che ha portato all'impeachment di un presidente del consiglio, essersi basati sul niente? Risposta: sì, possono. Assoluzioni e condanne fanno parte della logica del diritto, e sarebbe un paese pericoloso un paese dove tutti i processi si concludessero con la condanna degli imputati. E vale anche in questo caso: come spiega oggi, ancora groggy per il successo, l'avvocato Filippo Dinacci, "questa sentenza è la prova che il sistema funziona, e ci sono dei giudici che fanno il loro dovere". Anche a Milano, nel palazzo di giustizia dove più volte Berlusconi ha denunciato di sentirsi assediato da una falange compatta di magistrati decisi a toglierlo dalla scena, e dove invece tre giudici gli riconoscono oggi la più clamorosa delle assoluzioni.

Tutto normale, dunque, tutto "fisiologico", come dicono i cultori del diritto? Non proprio. Perché il processo Ruby non è stato un processo normale. Non lo è stato fin dalle indagini preliminari, quando su questo fascicolo si sono investite risorse di uomini e mezzi inimmaginabili per altri reati dello stesso tipo, e spesso anche per reati più gravi: una macchina investigativa di quelle che si usano solo per dare la caccia ai mafiosi e ai terroristi. Non lo è stato quando, come accertato dall'indagine del Consiglio superiore della magistratura, nella inchiesta ha fatto irruzione, di fatto impossessandosene, un procuratore aggiunto della Repubblica che non aveva alcun titolo per condurre l'inchiesta, se non la ferrea determinazione di incastrare l'indagato alle sue colpe. A Milano, chiunque viva dentro il palazzo di giustizia e sia dotato di un minimo di onestà intellettuale, sa che il processo Ruby è stato vissuto da una parte della magistratura milanese come l'occasione finale e irripetibile di portare l'attacco finale al Cavaliere, all'arcinemico, quello delle leggi ad personam, delle battute battute sui magistrati, dei giudizi sferzanti sulla "casta" delle toghe.

Questa battaglia finale è stata combattuta senza risparmio di mezzi investigativi, giudiziari e mediatici. Le fughe di notizie hanno accompagnato, sostenuto e a volte preparato i passaggi cruciali dell'inchiesta. Nel frattempo Berlusconi finiva condannato in via definitiva per un'altra indagine della procura milanese, quella sui diritti tv. Ma la caccia non si è fermata, e forse è stato uno sbaglio strategico non indifferente. Perché ora al Cavaliere che sconta ai servizi sociali la condanna per frode fiscale, viene dato uno strumento formidabile per rivendicare il suo status di ingiustamente perseguitato.

Si poteva fare finta di niente, davanti ai primi racconti di Ruby, quando dopo il fermo casuale iniziò a riempire pagine su pagine di verbali su quanto accadeva ad Arcore? Forse no, non si poteva. Una qualche forma di verifica delle pirotecniche rivelazioni della ragazza era doverosa. Ma sarebbe stato più saggio fermarsi un passo prima dell'irruzione in camera da letto, una volta assodato che se qualcuna delle fanciulle varcava quella soglia lo faceva di sua spontanea volontà. E che l'unica minorenne presente a quelle serate, ovvero la stessa Ruby, era universalmente considerata - per quel che diceva e per come appariva - assai più che maggiorenne.

Ma il vero errore di ostinazione la Procura lo ha commesso quando si è convinta che in questa indagine evanescente l'arma vera per incastrare Berlusconi, più di quanto avveniva ad Arcore, fosse quanto successo la notte del 27 maggio 2010, la telefonata di Berlusconi in questura a Milano. È quella chiamata, cui Ilda Boccassini attribuisce lo status del grave reato di concussione, l'architrave cui viene appesa l'intera indagine. E pazienza se si scopre strada facendo che Ruby quella notte venne rilasciata come altre decine di adolescenti prima e dopo di lei, prassi vecchia, consolidata, e universalmente applicata senza bisogno di parentele con Mubarak. È quel l'architrave che esce demolita dalla sentenza di oggi. I giudici della corte d'appello lasciano alla Procura un piccolo, quasi impercettibile, premio di consolazione, quando dicono che tra Berlusconi e Ruby qualcosa accadde, anche se non fu reato. Ma la concussione, la costrizione, il timor panico che la chiamata di Berlusconi avrebbe ingenerato nei vertici della polizia milanese vengono retrocessi brutalmente a quello che furono: una telefonata. Nell'ottobre di quattro anni fa, fu il procuratore Edmondo Bruti Liberati a comunicare ai giornalisti che, conclusi i gli accertamenti, i fatti di quella notte erano risultati corretti. Forse fu, da parte di Bruti, una mossa tattica, un depistaggio. Ma col senno di oggi, se ci si fosse fermati li sarebbe stato meglio per tutti.

E si sarebbero risparmiati un sacco di soldi.

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