Cronache

Quei "colletti bianchi" diventati icona

Nell'80 i torinesi sfilarono contro gli scioperanti per il diritto al lavoro

Quei "colletti bianchi" diventati icona

Torino sa reagire, come sua abitudine antica, senza dover urlare. Non si segnalano pugni chiusi e saluti romani, bandiere rosse e croci celtiche nel raduno di ieri in piazza Castello, nessun fumogeno, nessun attacco a vetrine e cassonetti, nessun insulto volgare all'avversario mentre la folla occupava tutta l'arena, da via Roma fino al palazzo Reale. La non notizia diventa una notizia, la normalità fa eccezione. Erano in trentamila, forse meno, forse più, non sembravano soltanto «disperati, anziani disinformati e madamin salottiere» come li aveva definiti, con la leggerezza della bagna caoda, la soave Red Blok Viviana Ferrero che con i Cinquestelle si è fatta una reputazione oltre i confini di Pecetto. C'era la mezza età e qualche rappresentante della terza, c'erano donne e uomini, giovani, operai e studenti, un movimento vero, senza stelle, non confuso o confusionario.

La Torino del Vaffa day, quello del movimento di Grillo Giuseppe, dieci anni fa vomitò la propria rabbia contro tutto e contro tutti, da «Morfeo» Napolitano all'ultimo dei giornalisti (ma va?), complici e colpevoli del marciume, allora come oggi e sempre.

Ma quella stessa Torino fu capace, trentotto anni fa, di alzarsi e reagire, dunque di scendere in strada e marciare, a volto scoperto, anche allora, come ieri, senza drappi incendiari, per chiedere il diritto al lavoro mentre i picchetti davanti a Mirafiori (vi partecipò anche Enrico Berlinguer leader massimo, e lui vero, del partito comunista), quei picchetti, dicevo, bloccavano la libertà di scegliere. Venne definita la marcia dei colletti bianchi e addirittura Luciano Lama, capo della Cgil, parlò di quarantamila torinesi lungo le strade della città, spiazzando e smentendo la propaganda de l'Unità che definì «antisindacale» la protesta alla quale avrebbero partecipato al massimo dodicimila persone. I «bogianen» avevano capito che era arrivato il momento di muoversi, Torino voleva tornare a lavorare, lo sciopero di trentacinque giorni non aveva strozzato soltanto la Fiat ma l'economia della città e del Paese perché, come chiarì Gianni Agnelli, in una intervista concessa a Giovanni Minoli, smentendo la frase attribuitagli «Quello che va bene alla Fiat va bene all'Italia» con «Quello che è male per Torino è sempre male per l'Italia». No Tav non fa male soltanto a Torino.

Piazza Castello, ieri, è stata la risposta della città e dei cittadini che vogliono andare avanti e non schierarsi contro, a prescindere da quello che la logica dovrebbe suggerire; non è propaganda ideologica ma voci reali, tenaci, non aggressive, alle quali dare ascolto. Molto più facile è urlare un vaffa, tra risate e applausi, molto semplice raggrumare gli incazzati e dare alle fiamme simboli e fantocci, molto più comodo dire no, evitando di sedersi e di trattare.

La marcia, nell'autunno dell'Ottanta, portò a un cambio decisivo dei rapporti tra sindacato e fabbrica. La manifestazione di ieri ha suggerito al sindaco Appendino, che non rappresenta soltanto la città ma è espressione del movimento politico di riferimento, di ripensare: è pronta ad aprire la porta e ad accettare il dialogo.

Disperati, anziani disinformati e madamin salottiere sono in fila davanti al municipio. Il Movimento senza Stelle ha vinto.

La raffinata Viviana Ferrero e la sua orchestra dovranno farsene una ragione.

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