Sisma Centro Italia

Quelle macerie dell'anima che si assomigliano ovunque

Come in Irpinia, in Umbria e all'Aquila il terremoto spazza via, insieme ai paesi, la nostra piccola felicità

Quelle macerie dell'anima che si assomigliano ovunque

«Il mio paese non c'è più» continua a ripetere il sindaco di Amatrice, e non c'è altro da dire. Perché poi, e naturalmente, un paese non è solo le piazze, le strade, le abitazioni e i monumenti, ma la vita che gli ruota intorno, le abitudini e le passeggiate, i luoghi di ritrovo e i riti, le cene in casa fra amici, l'esistenza scandita al passo di ciò che la circonda. Spazzato via il primo, se ne va anche tutto il resto, è una parte di te che scompare, quasi sempre la gran parte di te, quella che dava un senso, quella che spiegava il perché del tuo stare al mondo. Le macerie di un terremoto portano con sé le macerie dell'anima. Nulla sarà più come prima, nessun domani ti restituirà il passato.

L'Aquila è un amaro, triste ricordo del 2009, la pianura padana modenese lo è di appena quattro anni fa, nel 1997 fu la volta di Umbria e Marche, nel 1980 c'era stata l'Irpinia, il Friuli è del 1976, la Messina di inizio secolo vide 82mila morti sotto le macerie Sempre e comunque, tranne quest'ultima, magnitudo sei, poco meno o poco più, il grado sismico che non perdona. Quello di ieri, dicono gli esperti, è stato causato dallo stiramento dell'Appennino ed è insomma come se la catena montuosa del centro Italia abbia scrollato le spalle. Le immagini e i suoni rimandano rovine e rumori di elicotteri, volti lividi e stanchi, i primi soccorsi, una quieta disperazione.

Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto rimandano a quell'Italia gentile, fra il Lazio e le Marche, che è fra i nostri più dolci paesaggi e che, quasi per una legge del contrappasso, cova nelle sue viscere la forza impassibile in grado di distruggerla. Ci sarà, al solito, la corsa contro i colpevoli, il rimpallo delle responsabilità, la retorica politica delle promesse e la vergogna morale delle speculazioni economiche sulla pelle e sui dolori degli altri È un verminaio in cui non ci inoltreremo, perché già visto, già sentito. Quello che resta e che colpisce è la perdita e il vuoto, il buco nero che inghiotte ciò che siamo stati, che rende vano e incomprensibile ciò che siamo. Si dirà, magari cinicamente, che la natura fa il suo corso e spesso ci presenta il conto per quello che, stravolgendola, le abbiamo costruito sopra. Ma l'uomo è questa cosa qui, dall'antichità ai giorni nostri, il sogno realizzato di lasciare un segno, edificare e costruire, ordinare e sprigionare bellezza. Può eccedere per hybris, oppure, semplicemente, per stupida superficialità: la grandezza umana è imperfetta, lo sappiamo, solo che tendiamo a dimenticarcene.

Non bisognerebbe mai tornare lì dove si è stati felici e ogni volta che disobbediamo a questo imperativo veniamo puniti: se n'è andata la magia di quel momento, è stata sconciata la grazia che l'aveva reso possibile, il tempo e la distanza hanno stravolto tutto e anche la nostalgia non ha più lo stesso gusto. Ma provate ad immaginare cosa sia essere privati dei luoghi dove fino al momento prima siete stati felici, e non importa se è la felicità delle piccole cose, la routine delle abitudini, il calore rassicurante che viene dalla iterazione dei gesti e dei posti frequentati, persino la noia del già visto, già detto, già sentito Da un momento all'altro scompare tutto e tutto diventa rimpianto, un grido di dolore che può anche non esplodere, ma ti corrode dentro.

Come già in passato, come sempre, ci si proverà a rialzare, perché l'uomo è anche questa cosa qui, faustiana nel bene come nel male. E può anche darsi che le nuove generazioni che non avevano fatto in tempo ad assaporare l'antico, si troveranno a loro agio nel nuovo che gli si presenterà davanti. È una di quelle speranze che si fanno strada a fatica dentro lo scetticismo di chi da più di mezzo secolo ormai contempla il venir meno di quell'armonia di architetture e di paesaggi che nel mutare degli stili aveva accompagnato l'Italia in un cammino plurisecolare e che poi da un momento all'altro se n'è andato inabissandosi in un'estetica del brutto che grida vendetta. Sotto questo profilo, il com'era, dov'era di una ricostruzione, sarà anche la risposta di ogni civiltà stanca e insieme insicura di se stessa, e però è se non altro una risposta intelligente.

Prendere atto della propria decadenza è meglio dello scimmiottamento di un'inesistente grandezza.

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