Politica

Quelle vignette autocensurate Simbolo della nostra sconfitta

Tanta solidarietà a parole. In Italia e all'estero c'è chi ha scelto di non pubblicare le immagini contestate dall'islam

Charbonnier in una foto pubblicata dal "New York Daily News"
Charbonnier in una foto pubblicata dal "New York Daily News"

Alla fine l'impressione è che li abbiano ammazzati perché disegnavano male e preferivano la bouillabaisse ai felafel , non perché offendevano il precetto di non schernire l'islam. È l'effetto ottenuto da quei media - tv, siti internet, giornali - che in tutto l'Occidente hanno scelto di non pubblicare le vignette di Charlie Hebdo per cui dodici persone sono morte. Un'autocensura collettiva mossa da un lodevole rispetto per l'altro, ma che si traduce in una opacità silenziosa e devastante, che per non urtare la sensibilità musulmana finisce per omettere parte di realtà e svilire idealmente le vittime stesse.

L'auto-bavaglio non è stato un ghiribizzo isolato di qualche ossequioso benpensante, ma un atteggiamento globale, seppur non maggioritario. I grandi network americani (Cbs, Nbc, Abc e anche la mitologica Cnn) hanno evitato di mostrare le vignette sul Profeta. Facebook ha bloccato il sito francese di Le Point per impedire l'accesso alle strisce satiriche. Il Financial Times (che ieri ha poi rettificato) ha pubblicato un editoriale sulla «stupidità» di chi tirava troppo la corda provocando gli islamici. Sul sito del britannico The Telegraph è apparsa la foto di una ragazza che leggeva una copia della «Vita di Maometto» coi disegni di Charlie Hebdo : la copertina era oscurata. Stessa cosa nel materiale fotografico fornito dell'agenzia Associated Press , che ha censurato le vignette esposte dalle migliaia di francesi scesi in piazza. Motivo? Erano «deliberatamente provocatorie». E pazienza se fino a ieri la stessa agenzia non aveva mai ritenuto provocatoria l'immagine del «Cristo di piscio» di Andres Serrano.

E in Italia? Non si raggiungono i livelli anglosassoni di politically correct , ma ci si avvicina inconsciamente. Repubblica è un caso da manuale di psicologia: riempie le pagine di orgogliosi commenti in difesa della libertà, intervista il disegnatore danese che vive sotto scorta e dice «basta censure sull'islam». Poi però il demone si fa strada sottopelle. I lettori filo-boldriniani, lo spettro degli attentati, qui tutti teniamo famiglia. Così sul giornale non si trova una sola vignetta islamica. C'è quella contro gli inglesi, quella su Obelix drogato, quella sulla crisi, quella su Ratzinger che amoreggia con una guardia svizzera, ma nemmeno una su Maometto, neppure delle più lievi. Al massimo in prima pagina trovi quella profetica sul guerrigliero che promette attentati entro la fine di gennaio.

Ora, nessuno è obbligato a ripubblicare i disegni più duri e offensivi, spesso di pessimo gusto. Quella è una pura scelta editoriale (e culturale, e politica). Ma la scelta di escluderli tutti, persino i più innocui, è una eloquente abdicazione al dovere di cronaca. Ci dice che nonostante i titoloni orgogliosi, di fatto la libertà è limitata, perché qualcosa - zelo, istinto di sopravvivenza, timore di passare per islamofobi - ci trattiene dal mostrare la realtà se questa contraddice certe regole religiose, come nel caso della rappresentazione di Allah o Maometto. Ma quelle vignette sono appunto realtà, non opinioni. Mostrarle aiuta a capire il perché di una carneficina, ma non significa condividerle; al contrario oscurarle significa condannarle.

Qualcuno dirà - come spiegato dalla Cnn - che bastava «descriverle verbalmente». Come se le parole potessero sostituire immagini, disegni e suoni. Come se Repubblica non avesse mostrato sul suo sito il video di Salvini che cantava cori contro i napoletani. Come se qualcuno si fosse fatto remore nel mostrare Sinead O'Connor che strappava la foto del Papa.

La verità è che si è molto più coraggiosi se dall'altra parte la replica arriva dall'avvocato e non da un fucile. E che tutta questa pavidità è triste, almeno quanto l'immagine-simbolo pubblicata dopo la strage dal sito del New York Daily News . Risale al 2011 e ritrae Charb, il direttore di Charlie Hebdo , davanti alle ceneri della redazione, incendiata dai fondamentalisti. Tiene in mano una copia del suo giornale, la sua vita. Ecco, in quella foto il giornale è ridotto dall'autocensura a un grappolo di pixel, un puzzle di inoffensivi brandelli virtuali. Per chi guarda, Charb tiene in mano il nulla e l'omaggio postumo al suo coraggio diventa una damnatio memoriae involontaria, perché cancellare quelle vignette è come riconoscere una motivazione a chi le ha volute vendicare coi mitra.

Autocensura è solo un sinonimo di paura.

Se l'aria è questa, Charlie Hebdo è morto per niente.

 

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