Cronache

Quell'eroe operaio odiato dall'estrema sinistra condannato per aver denunciato un brigatista

Ma l'assassinio di Rossa isolò i terroristi dall'opinione pubblica più comprensiva

Quell'eroe operaio odiato dall'estrema sinistra condannato per aver denunciato un brigatista

La sua morte segna la frattura fra il Pci e le frange del terrorismo. Ma prima del martirio di Guido Rossa non era cosi. Per capirlo basta leggere le risposte che Carlo Castellano dà a Sabina Rossa nel libro Guido Rossa, mio padre. Castellano, che vanta il triste primato di essere stato il primo comunista colpito dalle Brigate rosse, va dritto al punto: negli anni Settanta, «era riemerso quel filone sotterraneo della storia del Pci che si era sempre alimentato del mito della Resistenza tradita e della Rivoluzione incompiuta». Vasti settori della sinistra erano stati sedotti dalla violenza dei gruppi terroristici che sembravano realizzare le promesse rivoluzionarie diluite da Togliatti in un futuro indefinito. E invece di tagliare il cordone ombelicale con un passato ambiguo, coltivavano quelle passioni antidemocratiche. Nel segno della contiguità, della connivenza con le formazioni eversive. «Quel filone - prosegue Castellano - collegato ai settori più duri e puri della lotta partigiana e dell'antifascismo, riteneva che fosse giunto il momento di completare l'opera». Rinviata sì, ma pur sempre al di qua dell'orizzonte. «Sia chiaro - spiega l'ex dirigente dell'Ansaldo, gambizzato il 17 novembre 1977 - questa non era la posizione dei gruppi dirigenti del Pci. Ma sono convinto che i vertici del Pci sapessero perfettamente come stavano le cose. E cioè che nel partito esisteva una frangia consistente di iscritti e simpatizzanti che continuava a credere nella rivoluzione e nel modello di società comunista».

Molti militanti pensavano che le Br fossero alla fine più coerenti rispetto ai mille compromessi e capriole della classe dirigente del partito e ritenevano i brigatisti degni eredi dell'ala più radicale del partito, quella che nel dopoguerra faceva capo a Pietro Secchia, la stessa che dopo l'attentato a Togliatti aveva invano chiesto ai sovietici il permesso di usare le armi.

Così quando Guido Rossa denuncia Francesco Berardi, il postino delle Br, i terroristi pensano di poterlo colpire senza tanti problemi. In fondo si trattava di un atto di coraggio isolato, mentre i pesci dell'eversione nuotavano nell'acqua della comprensione, se non dell'ammirazione. Sappiamo che probabilmente il 24 gennaio 1979 il commando andò oltre i compiti assegnati e uccise un uomo che doveva essere solo gambizzato. Ma nessuno poteva prevedere quel che poi accadde: l'indignazione e la rabbia del movimento operaio, i funerali cui partecipò una folla oceanica, in breve l'evaporazione del mito che aveva sostenuto la lotta armata.

Il delitto Rossa rappresenta un errore non recuperabile nella strategia dei soldati della lotta allo Stato. E la fine di quel rapporto incestuoso che nemmeno il delitto Moro aveva eliminato.

Rossa, l'eroe solitario, paga la doppiezza di chi gli era intorno. E la poca avvedutezza del Consiglio di fabbrica dell'Italsider che l'aveva mandato allo sbaraglio, senza spingere i suoi compagni a una denuncia collettiva che avrebbe rotto quel clima di omertà. «L'idea che le Brigate rosse potessero avere qualche buona ragione per le loro azioni - racconta Castellano - si stava radicando, in quel periodo, anche in alcune aree del Pci».

Guido Rossa toglie ogni copertura ideologica ai cultori della P38.

Sarà il suo sangue la più grande punizione dei suoi assassini.

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