Cronache

Quell'inferno in terra per 70mila italiani

La lettera di uno dei pochi sopravvissuti racconta la fame, il gelo e l'indottrinamento. Una pagina drammatica della nostra storia

Quell'inferno in terra per 70mila italiani

Ufficiali che si sparano in testa piuttosto che farsi catturare dai sovietici, prigionieri italiani che crollano per gli stenti freddati sul posto, casi di cannibalismo e comunisti di casa nostra, compreso Palmiro Togliatti, che interrogano e rieducano. L'inferno in terra dei soldati italiani catturati nella sventurata campagna di Russia è noto. La testimonianza postuma del tenente Maurizio V., di Milano, «è qualcosa che non è scritta da nessuna parte», come lui stesso spiegò parlando solo una volta, pochi anni fa, in cambio dell'anonimato, per una tesi di laurea. Il figlio, dopo aver letto gli articoli del Giornale sulle fosse comuni dei prigionieri della seconda guerra mondiale scoperte a Kirov, in Russia, ci manda il testo di una testimonianza mai apparso in un libro o sui giornali. Suo padre è mancato due anni fa, ma il calvario patito in Russia non può essere dimenticato. Su 70mila prigionieri italiani dei sovietici tornarono solo in 10mila.

«Non mangiavamo da 4 giorni ed eravamo completamente stremati dalla stanchezza della battaglia, dal freddo a -40° e dalla situazione disperata», racconta il tenente del 35° corpo d'armata d'artiglieria a cavallo del Regio Esercito Italiano. Nel dicembre 1942 la sua unità è circondata sul fronte del Don. Il giovane ufficiale, classe 1914, è ferito da schegge che gli rimarranno nella testa per tutta la vita. Alle postazioni si avvicinano due «finti alpini, in realtà comunisti italiani riparati in Francia e da li trasferitisi in Russia per combattere con l'Armata Rossa per ordine di Palmiro Togliatti». A pochi passi dalla trincea «si gettarono a terra e scoprimmo che alle loro spalle c'erano i soldati russi che rapidamente ebbero ragione di noi». All'alba del 24 dicembre 1942 «dopo esserci accorti che grazie al tradimento di altri italiani, i sovietici erano riusciti ad arrivarci addosso senza che potessimo riprendere a combattere, molti di noi, tra i quali il mio stesso comandante, si suicidarono per non essere catturati».

I feriti vengono abbandonati nelle trincee su ordine dei sovietici «destinandoli quindi a morte certa entro poche ore» e inizia la marcia della morte nella neve. «A chi cadeva a terra stremato dalla fame, dalla stanchezza o per le ferite riportate non era nemmeno concesso il tentativo di rialzarsi - ha rivelato il tenente - veniva immediatamente assassinato con un colpo alla nuca ed abbandonato al lato della strada, preda ambita ed ancora calda dei lupi che come avvoltoi ci seguivano d'appresso in attesa di poter banchettare». Il tragitto della marcia «di decimazione» è costellato «di materiali distrutti, di cadaveri di soldati oramai irriconoscibili, congelati e smembrati». L'ufficiale viene internato a Tanbov, il primo di tanti campi di concentramento, dove «in circa un mese quasi il 60% di noi morì per gli stenti, per le ferite, per le malattie».

Ulteriori, penosi trasferimenti, in gran parte a piedi lo portano fino in Siberia, «l'inferno in terra». I prigionieri costretti ai lavori forzati dormono dentro delle buche e mangiano minestre di ortiche ed altre erbe selvatiche. L'orrore non ha fine: «Durante il mio internamento nei vari campi di concentramento fui testimone diretto di alcuni casi di cannibalismo perpetrati sugli internati da altri internati, che nel buio organizzavano dei veri e propri agguati omicidi per catturare l'incauto che si fosse avventurato all'esterno».

La lotta per la sopravvivenza, però, anche unisce i prigionieri: «Non potevamo nemmeno sdraiarci liberamente e riuscii a salvare i miei piedi e le mie gambe dal congelamento solo perché di notte mi toglievo gli scarponi, me li legavo al collo per non farmeli rubare e mettevo i piedi sotto le ascelle di un altro camerata per tenerli al caldo e per far circolare il sangue, mentre lui a sua volta faceva lo stesso sdraiandosi di fronte a me».

In ogni campo «erano presenti dei comunisti italiani ai quali era affidato il compito di rieducarci tenendoci una sorta di scuola di comunismo e sottoponendoci costantemente a continui interrogatori». Una volta arriva anche «Togliatti con la divisa militare sovietica accompagnato da alcuni suoi accoliti italiani». Il tenente di Milano finisce pure nella famigerata Lubjanka, la sede a Mosca della polizia segreta sovietica.

La famiglia viene informata che Maurizio è morto, grazie alla piastrina che Mosca consegna volutamente alla Croce rossa, ma l'ufficiale viene rilasciato nel 1946. Non sa neppure che la guerra è finita e l'Europa divisa in due dal patto di Yalta. Gli inglesi caricano lui e gli altri sopravissuti italiani su un vagone ferroviario di nascosto attraverso la Jugoslavia: «Tito ha già fatto uccidere tutti i prigionieri passati per il suo territorio».

Quando arriva a Milano il reduce dalla Russia pesa 38 chili, ma non è finita. Il tenente viene epurato dall'albo dei notai, retrocesso di grado e non ha diritto allo stipendio di guerra. Si ricostruisce una vita senza parlare mai della prigionia. Un giorno «camminando in compagnia di mia moglie Fabia, mi capitò casualmente di incrociare a Milano, in Galleria Vittorio Emanuele, uno di quegli italiani , comunisti e traditori, che mi aveva lungamente e spietatamente interrogato in un gelido campo di concentramento della Siberia». Si tratta di Togliatti, segretario del Partito comunista e senatore della Repubblica. «Abbozzò un saluto cordiale tendendomi la mano e dicendomi: senza rancore, avvocato.... Fu un vero piacere appioppargli in piena faccia un sonoro ceffone che gli lanciai con tutta la forza che la rabbia di reduce dalla Russia mi permise di mettere in azione».

Maurizio V. non ottenne mai, nonostante i tentativi da più parti, i gradi di capitano che l'Italia gli doveva.

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