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QUI ROMA Stazione Tiburtina

I migranti si sono spartiti il territorio tra piante e viadotti. Ma all'arrivo delle forze dell'ordine tutti scappano: urla, spintoni e il piazzale si svuota

RomaLa pizza della Caritas è fredda e un po' dura, ma dopo il deserto, il mare, i libici e quattro giorni di bivacco anche i sassi diventano buonissimi. Yemane però non fa in tempo a mangiarla. «Presto, sparisci», gli gridano, «è arrivata la polizia», e lui butta la pizza e schizza via. La sua maglietta gialla s'infila dietro gli alberi, riappare un attimo davanti agli autobus e poi scompare. Spinte, urla, scivoloni, donne che piangono, dieci minuti di parapiglia. Alla fine davanti alla stazione Tiburtina di migranti africani ne rimangono due, due di numero, seduti sul marciapiede a fumare una sigaretta. Altri diciotto sono in commissariato per le procedure di identificazione. «Poracci - commenta il giornalaio - , se diventano rifugiati politici la Germania se la scordano».

Diciotto più due fa venti, più Yemane dalla maglietta gialla 21. Erano più di cento l'altra sera lì sotto gli alberi di largo Mazzoni. Eritrei, somali, etiopi, tutti «transitanti», tutti con il sogno tedesco o svedese da realizzare, tutti per quattro notti ospiti del Grand Hotel Stazione Tiburtina, con i cartoni come letti e le plastiche da tirare su in casi di pioggia. Ai pasti ci pensavano la Caritas, le volontarie della parrocchia, il bar Gemini, qualche volta il Comune. Ora sono due. E gli altri cento, che fine hanno fatto?

«Si sono dispersi, ma presto torneranno - prevede Giorgio De Acutis, responsabile della Croce Rossa - . Verranno aiutati in qualche maniera dai connazionali che vivono qui, poi però si rifaranno vedere. Questo dei transitanti infatti è un fenomeno abbastanza nuovo. Scappano da situazioni terribili per raggiungere i Paesi del nord ma poi si arerano a Roma perché finiscono i soldi. E non vogliono lo status di rifugiati politici, altrimenti sarebbero costretti a restare. Prima si concentravano nel campo di Ponte Mammolo, poi, dopo uno sgombero, da qualche giorno sono finiti qui. Noi facciamo il possibile. Distribuiamo l'acqua, assicuriamo sessanta visite sanitarie al giorno. Ma la situazione è pesante».

Largo Mazzoni è un brutto piazzale quadrato davanti all'avveniristica stazione Tiburtina e sotto un intreccio di strade sopraelevate e cavalcavia. Un mercatino di cianfrusaglie, un piccolo albergo, un paio di bar, tre agenzie di viaggio e il capolinea di tanti pullman diretti verso le regioni più disparate d'Italia. I migranti si sono divisi il territorio, gli etiopi sotto gli alberi, gli eritrei sotto i viadotti e lì hanno passato quattro notti aspettando un bus che li portasse verso una nuova vita.

Alla vista della polizia sono scappati, ma basta farsi due passi per reincontrarli. Ce n'è un gruppetto che, senza poter cogliere l'ironia della cosa, cammina per viale della Lega Lombarda. «Abbiamo attraversato il Sudan, la Libia e ala Sicilia - racconta un ragazzo eritreo - , e adesso vogliamo andare in Germania o in Svezia, o in qualunque nazione purché non sia la Libia, che è veramente un posto orribile e pericoloso». Perché vi siete fermati a Roma? «Perché non abbiamo i soldi per il biglietto per Monaco, 120 euro. Abbiamo speso tutto per il viaggio. Tre-quattro mila dollari, anche cinque, dipende dal punto di partenza. Ora speriamo di trovare il denaro».

Ma pure con i soldi non sarà facile partire. Il Brennero è chiuso e la Germania alla prese con il G7 ha sospeso temporaneamente gli accordi di Schengen. E così gli ospiti del Grand Hotel Tiburtina sono quindi destinati a restare a lungo nella terra di mezzo. Chi li aiuterà? Il Campidoglio? «Non possiamo farcela da soli», si difende Francesca Danese, assessore alla Politiche sociali. Per fortuna al bar Gemini si stanno già dando da fare.

«Non c'è problema, ci pensiamo noi».

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