Quirinale 2015

Il re e il Ciambellano di un Paese senza Storia

Renzi come un piccolo principe ha deciso da solo chi sarà il ciambellano del Colle. E quella che doveva essere una giornata storica si riduce a un trionfo di sbadigli e abiti grigi

Il re e il Ciambellano di un Paese senza Storia

Che delusione. Ieri ero tornato nella pioggia gelida a osservare il Parlamento dall'esterno dopo tanti anni passati dentro per raccontare la prima giornata per l'elezione del presidente della Repubblica. E, invece, eccoci davanti a un Parlamento che non produce storia ma soltanto reazioni a un annuncio che non ammette discussioni. Il piccolo principe, o giovane re, ha deciso chi sarà il Ciambellano del Colle e lo annuncia come se avesse ritrovato un caro anziano parente da portare alla festa. Il decoroso, canuto, mai sorridente candidato Sergio Mattarella che è certamente un campione della prima Repubblica.

Da quel momento le postazioni televisive su piazza Montecitorio e dintorni hanno registrato e mandato in onda una cantilena su due note. La prima nota era quella interna al Pd e alle sue correnti, tutte e tutti entusiasti di Mattarella, di cui si elogia la «schiena dritta» contro la legge Mammì. E la seconda era, ed è, quella del centrodestra che ripete con composta monotonia lo stesso mantra : non abbiamo niente contro la persona, mentre non ci piace il metodo, anzi lo respingiamo. E da queste posizioni e queste constatazioni è scaturita rimbalzando da notiziario a notiziario di questa giornata di cupo inverno, la solita domanda: reggerà il patto del Nazareno?

Origliando si percepiscono gli echi delle guerre intestine, dei regolamenti dei conti e degli atti di forza. Che mi ricordi, non era mai accaduto nella storia repubblicana che un segretario di partito, o meglio il segretario del primo partito nonché capo del governo, convocasse i suoi «grandi elettori» e li facesse votare sotto le telecamere innalzando come vessilli i fogli azzurri delle deleghe. Bersani lo aveva fatto con Prodi, ma Bersani non era capo del governo. E la carica dei centouno travolse sia l'uno che l'altro. Stavolta giurano di no, che non tornerà il fantasma di quella carica, ma si sa benissimo che i piani per il Quirinale pattinano sul ghiaccio sottile e i tonfi storici sono noti.

Certo, Rosy Bindi dal capello ormai fluente e non più a casco prussiano come un tempo, è molto sorridente mentre conversa amabilmente con la cattolica Binetti, perché la candidatura di Mattarella è democristiana come lei, perché indica un arretramento di Renzi dalle posizioni trasversali come il patto del Nazareno nella direzione del recupero della sinistra, e perché l'operazione nel suo complesso è vissuta come una vittoria delle sinistre. Nichi Vendola è raggiante con la sua cravatta argentata e scopre improvvisamente in Renzi delle virtù che fino a poche ore prima dell'annuncio erano ignote. Ma chiede che Mattarella apra alle emozioni, che convochi un comune sentire. E se avete ben guardato le foto di Mattarella (si ricordano pochi filmati con lui in movimento) una tale richiesta vendoliana pare poco probabile. Il sorriso di Mattarella, parliamo sempre di quello fotografico, è rarissimo ma ci sembra viziato da una piega amara, con scarse tracce di gioia. Stefania Prestigiacomo nel suo elegante completo grigio fa concorrenza a Paolo Romani quando chiarisce con voce martellante e volutamente monotona che adesso il giocattolo - il metodo - è rotto e che se Renzi pensa di poter fare come gli pare senza pagare conseguenze sul cammino delle riforme si sbaglia.

La giornata è monotona e i cronisti televisivi, gli anchormen dei piccoli salotti di dibattito si devono arrampicare sugli specchi per trovare qualcosa di eccitante da raccontare. Vanno in onda anche sugli schermi interni al Palazzo tutti i prevedibili documentari in bianco e nero di antichi presidenti di cui chi ha meno di mezzo secolo non ricorda o non sa quasi nulla, e anche l'aneddotica dei tempi andati è scarsa e ripetitiva. La verità è che la decisione adottata da Renzi annunciando di avere eletto da solo un intero presidente della Repubblica, ha lasciato il Parlamento senza fiato, un po' stordito e con le carte rimescolate.

Quando arriva Silvio Berlusconi in via degli Uffici del Vicario dove entra nel Palazzo dei gruppi parlamentari telecamere e microfoni si protendono come foglie carnivore, ma il leader di Forza Italia tira dritto senza una parola di commento. La sua espressione è tesa e direi arrabbiata. Viene diffusa, e rimbalza, una sorta di giustificazionismo renziano: quella secondo cui il presidente del Consiglio doveva dare prova di non essere condizionato dal leader di Forza Italia, per non perdere un pezzo del suo partito. Ma la spiegazione non convince. L'impressione è che si sia svolto un braccio di ferro serrato sul nome di Giuliano Amato che Berlusconi sosteneva fortemente e che Renzi respingeva altrettanto fortemente. Il motivo del secco no al «dottor Sottile» starebbe nel fatto che Renzi al Quirinale vuole un uomo privo di un vero prestigio internazionale, sconosciuto alle cancellerie e che non gli rubi la scena, cosa che un Amato presidente avrebbe certamente fatto.

La notte porterà novità, questa è la regola mai smentita. Durante le notti che precedono le elezioni - la prossima è per questa mattina alle 9.30 - si accendono i fuochi delle comunicazioni segrete, rullano i tam tam delle trattative. Ma trattative fra chi? Gli antirenziani di sinistra si sono satollati con il nome dell'onesto Mattarella dalla schiena dritta. I renziani sono sicuri di guidare il gioco e il centrodestra è raggelato e trattiene il respiro per non urlare. Tuttavia il bookmaker cerca di sondare le probabilità di un'improbabile ribellione. I tunnel che i grandi elettori devono percorrere sono cronometrati. Se chi deve votare scheda bianca si ferma a scrivere sotto il baldacchino con le matite, viene subito individuato.

La piazza di Montecitorio si è svuotata rapidamente e l'impressione è quella di una storica giornata senza storia, una giornata del tutto diversa da tutte le altre prime giornate delle votazioni per il Quirinale. Per amore della suspense tutti vorremmo che stamattina accadesse qualcosa, qualcosa che restituisse al Parlamento il suo ruolo di incubatrice fertile, quello in cui anche le trame e i tradimenti apparivano come germogli vitali. Su tutti i discorsi, i commenti, le dichiarazioni incombe il senso di una sterilità del gioco democratico. Uno ha deciso per tutti. Amici e nemici, alleati e sodali. E da quel momento l'unica cosa interessante sarebbe qualche manifestazione di dispetto, di dissidenza, di regolamento dei conti. Ma non è questo ciò che ci si deve augurare, perché l'esperienza del massacri del 2013 sui nomi di Franco Marini e poi di Prodi è stata ridicola, oltre che misera. Tuttavia ieri abbiamo assistito a un dramma democratico in due tempi. Nel primo tempo un personaggio ha detto che tutti i giochi sono chiusi e che è arrivata l'ora di obbedire. Nel secondo tempo si deve controllare che le direttive siano eseguite. Nell'angusto spazio chiuso da questa tenaglia non c'è modo di far fiorire alcuna posizione originale, alcuna provocazione, alcuna attività cerebrale di quell'organo atrofizzato che i padri costituenti avevano disegnato come Parlamento, il luogo dove una testa vale un voto e dove la responsabilità della scelta deve essere singola, personale e segreta. Era l' Italian Dream di una Costituzione che scommetteva tutto sulla libera scelta dei rappresentanti.

Il sogno era già sbiadito e ieri abbiamo assistito a una sua mesta parodia.

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