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Renzi accetta il Tedeschellum "Non mi piace ma è l'unica via"

Il segretario Pd in Direzione benedice l'accordo e zittisce i 31 ribelli. Sì finale il 7 luglio, ora il voto è davvero vicino

Renzi accetta il Tedeschellum "Non mi piace ma è l'unica via"

«Q uesta non è la nostra legge elettorale", e «io non sono un entusiasta del proporzionale alla tedesca», esordisce Matteo Renzi, nella prima riunione della Direzione Pd dopo la sua rielezione a segretario. Ma, spiega ad una platea da cui sa che è pronta a ripartire la solita fronda di sinistra, è l'unica proposta che, in questo Parlamento, può trovare una maggioranza ed evitare al paese di andare al voto con i pasticci cucinati dalla Corte Costituzionale.

Altre scelte non erano praticabili, visti i numeri e visto - ricorda - il fatto che «abbiamo perso il referendum, e questo segnerà a lungo le dinamiche istituzionali del paese», rendendo pressoché impossibile un sistema maggioritario. Ecco quindi che il tedesco, con uno sbarramento «inamovibile» al 5% (e Angelino Alfano si rassegni) resta l'unica possibile e «responsabile» risposta all'«impegno che abbiamo preso col presidente della Repubblica, che ha chiesto una nuova legge elettorale», ed è l'unica proposta che «vede la significativa convergenza tra l'80% delle forze politiche», aprendo la strada ad una «pacificazione istituzionale e ad un ordinato svolgimento del passaggio elettorale, senza forzature». E chi ancora insiste con la storia «dell'inciucio con Berlusconi»" viene liquidato con un: «È una semplificazione stancante». Voglio presto una legge elettorale (e «presto» vuol dire entro la prima settimana di luglio, come concordato anche con Fi), spiega il leader Pd, «non perché sono impaziente di andare a votare, ma perché dal giorno dopo si aprirà finalmente la sfida sui contenuti con le altre forze politiche, e noi come Pd abbiamo la presunzione di essere quelli che dettano l'agenda». Per Paolo Gentiloni, presente in prima fila, Renzi chiama l'applauso, ringraziando il premier per il suo lavoro. Ma è l'ultimo applauso.

L'eterno copione del Pd non tarda però a riproporsi: visto che Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani sono emigrati sul gommone Mdp, tocca all'ex sfidante Andrea Orlando e al solito Gianni Cuperlo di aprire la abituale guerriglia interna. Prima calano un documento anti-tedesco e anti-voto anticipato firmato da 31 senatori (tra cui Chiti, Mucchetti, Tocci ed altri), per dire che loro non ci stanno ad abbandonare il maggioritario per il proporzionale, e tanto meno ci stanno ad andare al voto a settembre col rischio di larghe intese con l'odiato Cavaliere (lo stesso con cui nel 2011 prima e 2013 poi hanno già fatto svariati governi). Poi, dopo un intervento molto critico di Orlando nella Direzione, la minoranza annuncia un voto contrario. «Ci dobbiamo porre il problema se questo sistema garantirà più o meno stabilità», dice il ministro della Giustizia. «Io non credo che garantirà stabilità. Sarà un nostro problema spiegare come la costruzione di un'alleanza con Forza Italia sia compatibile con un disegno riformista del Paese», accusa.

In privato, la reazione renziana è secca e non sembra per nulla preoccupata: «Faranno la loro battaglia interna, la perderanno e poi si allineeranno alle decisioni della maggioranza», rassicura i suoi, preoccupati di dover affrontare l'ennesima battaglia interna. Anche perché presto si voterà, e spetta al segretario del partito la composizione delle liste elettorali. E Renzi sa bene che chi non è matematicamente certo della ricandidatura difficilmente si metterà a fargli la guerra. Tant'è che in direzione manda apertamente un avvertimento chiaro: «Siamo un partito democratico, qui si discute e poi si vota. Chi non è d'accordo lo dica alto e forte, ma dopo aver votato mi aspetto da tutti la coerenza rispetto al partito: ciò che si decide a maggioranza è vincolante».

E i parlamentari che vogliono essere ricandidati sono avvertiti.

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