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Renzi asfalta la vecchia sinistra: via i reduci da museo delle cere

Il premier sfida i malpancisti del partito: "Rispettiamo chi non la pensa come noi Ma non lasceremo che quella classe dirigente si riprenda il Pd e lo riporti al 25%"

Renzi asfalta la vecchia sinistra: via i reduci da museo delle cere

Firenze - E niente, anche la scissione esce dalla Leopolda malconcia, ancor prima di cominciare.

Con l'aiuto (involontario, si immagina) di Rosy Bindi, che ha bollato come «imbarazzante» il Pd della Leopolda, nell'intervento di chiusura della tre giorni fiorentina il premier sfida la sinistra malpancista del suo partito, scesa in piazza con la Cgil contro il governo, a decidere finalmente «cosa vuol fare da grande»: nella Big Tent del Pd renziano c'è posto per tutti, c'è anche un angolino vintage per chi vuol restare «aggrappato alla nostalgia», alle «coperte di Linus» del passato, come l'articolo 18. Ma di certo «io non ho paura che si crei a sinistra qualcosa di diverso», anche perché «le sinistre arcobaleno nate da uno strappo hanno sempre perso, e con loro hanno fatto perdere l'Italia».

Una cosa è certa: il Pd indietro non può tornare: «Noi rispettiamo chi in Parlamento non la pensa come noi, rispettiamo i voti di coscienza su singoli provvedimenti, rispettiamo anche i messaggi offensivi (come quelli della Bindi, ndr ). Ma non consentiremo a quella classe dirigente di riprendersi il Pd e riportarlo dal 41 al 25%. Non consentiremo a nessuno di fare del Pd il partito dei reduci, delle statue di cera». La sala viene giù per gli applausi, e a Roma la minoranza Pd entra in agitazione: la sfida è chiara, e suona quasi come una cortese indicazione della porta: se il Pd renziano che vince vi fa così orrore, potete sempre andarvene altrove. Roba da brividi, perché allo stato nessuno (neanche il ferocissimo Pippo Civati) se ne vuole andare: metti che poi le elezioni siano più vicine del previsto, che fine si fa? L'unico potenziale leader della sinistra antagonista, il capo della Fiom Maurizio Landini, non sembra neppure lui molto tentato dall'idea di mettersi alla testa del partito dei reduci Pd, e ha spiegato a più di un interlocutore che una cosa del genere «non va da nessuna parte». E infatti dalla minoranza arrivano subito repliche piccate: «Non so se Renzi auspichi una rottura, ma se lo tolga dalla testa», dice il bersaniano Alfredo D'Attorre, «noi rimaniamo nel Pd, per restituirgli la sua vocazione di grande partito della sinistra e per costruire un'alternativa: Renzi non sarà l'ultimo segretario del Pd». Prima o poi torneremo, è la promessa. Che non spaventa granché il premier-segretario.

Il quale, liquidata la fronda interna, passa alla Cgil e il succo non cambia: c'è una sinistra moderna che sta dentro il proprio tempo (la sua) e ce ne è un'altra incapace di tenere il passo e di uscire dal museo. Dove si collochi la Camusso per Renzi è facile intuirlo: «Rimanere oggi attaccati all'articolo 18, una norma del 1970 che la sinistra non aveva neanche votato, è come cercare di mettere il gettone dentro l'iPhone, o di infilare il rullino nella macchina digitale». È ora che anche il sindacato si svegli e si accorga che la storia va avanti, invece di insistere su battaglie residuali: il precariato, dice Renzi, «non si combatte con i convegni o i cortei» ma cambiando «le regole» del lavoro, e la «mentalità» delle imprese. «Non c'è più il posto fisso, e non perché l'abbiamo scelto noi, ma perché è cambiato il mondo – spiega il premier –. Non c'è più il modello fordista, la monogamia aziendale è in crisi nel mondo. E cosa fa la sinistra? Fa un dibattito ideologico sulla coperta di Linus? L'articolo 18 significa dare lavoro ai giudici e agli avvocati, non a chi perde il posto». Il salone affollatissimo della ex stazione Leopolda si spella le mani. Non mancano frecciatine alla burocrazia Ue, e persino un quasi sberleffo alla Merkel: «Tu hai preso 10,6 milioni di voti, noi 11,2: sono cose che capitano. Abbiate rispetto per il mio Paese e per il mio partito».

Ma la chiusura della Leopolda Renzi la dedica a Giorgio Napolitano, chiamando per lui l'ovazione finale: «Un grande, affettuoso omaggio per come interpreta l'Italia per bene come lui. Tanto più doveroso quando si sentono così tante menzogne come quelle che si è sentito dire lui».

Ogni riferimento ai pm di Palermo, e a chi ha voluto tirare il capo dello Stato dentro il processo-farsa sulla trattativa, è voluto.

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