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Renzi bluffa con mezzo Pd e manda in tilt la minoranza

Nei colloqui privati l'ex premier non chiarisce la linea. Dietrofront dei frondisti: non vogliono più il congresso

Renzi bluffa con mezzo Pd e manda in tilt la minoranza

Roma «Ormai ha deciso: si dimette e ci porta subito al congresso per rilegittimarsi. Ma temo che il governo Gentiloni non reggerà a due mesi di campagna congressuale col Pd che si tira i piatti, e forse è proprio quello che vuole». A fare questo pronostico, alla vigilia della Direzione Pd di domani, è un alto dirigente del Pd, uno dei tanti che negli ultimi giorni hanno parlato con Matteo Renzi e tentato ognuno di convincerlo a fare una cosa diversa: dimettersi, non dimettersi; fare il congresso subito o farlo a giugno o farlo a dicembre; proporre il premio di coalizione a Silvio Berlusconi in cambio del voto a giugno, o tenere il premio di lista; far cadere il governo ora, o tra qualche mese, o mai.

Un bailamme, una «maionese impazzita» come la chiama un parlamentare di lungo corso del Pd, un tutti contro tutti in cui si attende con crescente apprensione quel che deciderà la «Sibilla del Nazareno» (la battuta è di un renziano) e cosa proporrà alla Direzione l'ex premier.

E la sensazione è che i messaggi arrivati in questi giorni ai vari interlocutori dal segretario siano stati diversi, e a volte contrastanti. Tesi probabilmente più a spiazzare e spaventare i vari capibastone del Pd che a concordare con loro una linea.

Così, non è detto che la conclusione tratta dall'alto dirigente Pd (annuncio di dimissioni in Direzione e avvio immediato del congresso) sia quella vera. E che non sia invece un'arma di pressione per ottenere l'altro obiettivo: le elezioni anticipate. Perchè, dice un esponente della minoranza, «dopo aver combattuto per tre anni contro i 'gufi' ora è lui il primo gufo anti-governo».

Il congresso immediato, che sarebbe facilmente vinto da Renzi, non lo vogliono in molti, anche nella maggioranza che ora lo sostiene: in parte per la preoccupazione della «destabilizzazione» che una battaglia congressuale scaricherebbe sul governo, in parte perché taglierebbe la strada al progetto di chi ha bisogno di tempo per mettere in pista un candidato alternativo (il nome più gettonato è quello di Andrea Orlando, benedetto ieri anche da Emanuele Macaluso e persino da alcuni dalemiani). E non lo vuole - adesso - neppure la minoranza bersaniana, che cambia linea ogni due giorni in un esilarante testacoda continuo: quando Renzi ha proposto le assise anticipate, subito dopo il referendum, sono insorti supplicandolo di rimandarlo. Quando poi Renzi ha detto che ok, si sarebbe celebrato come da statuto a dicembre, Bersani e compagni sono nuovamente insorti per reclamarlo. Ora che dal Nazareno trapela la storia delle dimissioni, la minoranza fa un nuovo dietrofront: «Se tutto si risolve in una gazebata, organizzata in quattro e quattr'otto, allora non va bene. Non accetto una sfida tipo figurine Panini, con le faccine di Renzi o Speranza», tuona il medesimo Roberto Speranza. E la minoranza Pd (che oggi riunisce su un palco a Firenze tutti gli aspiranti sfidanti di Renzi: Rossi, Speranza, Emiliano) torna per l'ennesima volta a minacciare la scissione, se Renzi fa quello che loro volevano prima ma ora non vogliono più: «Se Renzi prenderà la strada del congresso-lampo - scandisce Davide Zoggia, che ormai frequenta più Massimo D'Alema che il povero Bersani - si assumerà la responsabilità di una rottura e noi faremo le nostre valutazioni.

L'impressione è che la Direzione di lunedì possa segnare un punto di non ritorno».

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