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Renzi chiede alla fronda Pd una tregua fino al 2017

Il premier risponde a Prodi e D'Alema e sfotte Letta ma propone di congelare lo scontro in attesa del congresso: "Sulle riforme ho i numeri anche al Senato"

Renzi chiede alla fronda Pd una tregua fino al 2017

La giostra sta per ripartire: già la prossima settimana al Senato riprendono i lavori di commissione sulle unioni civili, e quella successiva toccherà alla riforma costituzionale. E alla vigilia di un autunno cruciale quanto incerto per il suo governo, Matteo Renzi, in un'intervista al Corriere , si mostra spavaldo («I numeri ci sono, come ci sono sempre stati») e così sicuro di sé da fare marameo a tutto il vecchio establishment del centrosinistra, quello che ieri «stava insieme contro qualcuno (Berlusconi, ndr ) e non per qualcosa», e che oggi sta insieme contro di lui. Padri nobili inclusi: a Romano Prodi, che ormai - nemesi storica - si ritrova nella stessa trincea di D'Alema contro l'irriverente fiorentino, il premier manda a dire che non si è accorto dei suoi tagli fiscali, a cominciare dai famosi 80 euro, perché è troppo ricco: «Non rientra nella categoria, ma chi invece guadagna 1.500 euro al mese se ne è accorto eccome». Prende in giro D'Alema, che oggi rimpiange l'Ulivo dopo «averlo ucciso», e distilla perfidia verso Enrico Letta, possibile carta della minoranza per sostituire lui, al governo e al partito, ma sottolineando che la partita va rinviata al Congresso, nel 2017: «sarebbe divertente» averlo come sfidante alle primarie, «potremmo confrontare i risultati dei rispettivi governi». Del resto, ricorda, «sia io che Enrico abbiamo già avuto esperienze di primarie» (sottinteso: io le ho vinte, col 70%; Letta nel 2007 le perse con l'11%). Sulla riforma del Senato non offre mediazioni né al centrodestra («Si chiariscano le idee tra loro, poi se vogliono confrontarsi siamo qua, altrimenti bye bye») né alla sua minoranza sull'elezione diretta dei senatori, «che è già stata esclusa con doppio voto, a Camera e Senato». E a chi gli contesta i voti di Verdini fa spallucce: «La mia minoranza firma gli emendamenti con Calderoli e Salvini, Grillo e Brunetta; e dovrei imbarazzarmi per il voto di chi già ha sostenuto questa riforma?».

Una cosa è certa: Renzi non aprirà alcuna trattativa, interna o esterna, finché non sarà chiaro quello che nel Pd chiamano «il campo da gioco». Ossia fino a quando il presidente del Senato Grasso non avrà sciolto l'enigma: cederà alle pressioni dell'apparato del Senato e delle opposizioni (minoranza Pd inclusa) che gli ingiungono di riaprire agli emendamenti, con un cavillo, l'articolo 2 del ddl Boschi (quello che fissa la composizione del Senato, e quindi anche la selezione dei senatori), o no? Nel primo caso, la partita per Renzi sarà difficilissima: ci sono centinaia di emendamenti per ripristinare il Senato elettivo (e quindi preservare lo status quo) e su ognuno di essi può coagularsi una maggioranza spuria. Ma per il premier sarebbe complicato mettere in gioco governo e legislatura su una singola correzione, per quanto radicale. Diverso sarà invece se Grasso si limiterà a far rivotare l'intero articolo, senza emendamenti: in quel caso, Renzi avrà buon gioco a porre l'aut aut all'aula del Senato, e come dice lui «i voti ci saranno». Anche perché a Palazzo Madama qualcosa si muove, come dimostra lo spostamento verso la maggioranza di un senatore di Sel come Dario Stefano, che potrebbe presto essere raggiunto da altri. Renzi avverte Grasso: riaprire alle modifiche l'articolo 2, «già votato due volte, sarebbe un colpo incredibile a un principio che vige da decenni».

E nel Pd si conta che sul presidente del Senato si eserciti, nei prossimi giorni, anche la discreta moral suasion del Quirinale, per evitare che con quella che viene definita «una forzatura» Grasso metta a repentaglio riforme, governo e legislatura.

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