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Renzi deride D'Alema rottamato pure dai suoi: se mi attacca mi aiuta

Resa dei conti nella minoranza Pd, che scarica la vecchia guardia. Il premier infierisce: quando lui parla io guadagno nei sondaggi

Renzi deride D'Alema rottamato pure dai suoi: se mi attacca mi aiuta

«D'Alema? Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo: tutte le volte che parla guadagno un punto nei sondaggi». All'indomani della burrascosa Direzione che ha dato via libera – con qualche modifica promessa – alla riforma dell'articolo 18, Matteo Renzi non esita ad infierire sulla «vecchia guardia» del Pd. E sui sindacati, che avranno pure «un ruolo importante», ma devono capire il «messaggio» del governo: se sono contrari alle nostre proposte, devono lasciarci continuare ed andare avanti. Non siamo legati al destino dei sindacato». Del resto, conclude, «credo che la gente sia con noi, non con i sindacati». Quanto alla manifestazione annunciata dalla Camusso per il 25 ottobre, Renzi ironizza: «Ora tornano in piazza? Bene! Viva! Quando loro saranno lì, noi saremo alla Leopolda: ci hanno anche risolto il problema di chi ci fa la manifestazione contro».

Del resto, lo scontro ora si è tutto spostato dentro le file della minoranza Pd, dove ci si accapiglia con durezza rimpallandosi la colpa di una figuraccia «che ci potevamo risparmiare, se non era per quei due», come dice un (ex) dalemian-bersaniano. I due sono appunto D'Alema e Bersani, che con i loro veementi j'accuse contro il segretario-premier lunedì sera hanno fatto saltare una mediazione pazientemente cucita nelle ore precedenti da tanti loro pupilli (Speranza e Orfini, Damiano e Epifani, Amendola e Stumpo), che avrebbe portato la minoranza ad astenersi rivendicando il «passo avanti» strappato al governo anziché implodere e votare in ordine sparso, in tre modi diversi. E così il day after è pesante nella sinistra Pd, con l'ex presidente Gianni Cuperlo che accusa l'attuale presidente Matteo Orfini di «aver perso il suo ruolo super partes».

Ormai però è andata, e la scena si sposta a Palazzo Madama. Ieri l'assemblea dei senatori Pd è stata senza storia, tutto rinviato a quando la settimana prossima si inizierà a votare il Jobs Act e il governo, come ha annunciato il capogruppo Zanda, presenterà un suo emendamento per riprendere i deliberati della Direzione, e dunque la reintroduzione del reintegro non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli disciplinari. Innovazione «non da poco», spiegano i sindacalisti del Pd come Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro, che ironizza: «Chissà se resta nella delega, perché saranno in molti a premere su Renzi perché la tolga». E infatti da Ncd e Pi si levano alti lai contro la novità concessa da Renzi ai suoi, e al premier toccherà mediare anche a destra. «Occorrerà specificare molto bene le fattispecie per il disciplinare, in modo che sia meno applicabile possibile», taglia corto un renziano. Al Senato i numeri sono sempre sul filo e alcuni irriducibili come i civatiani Corradino Mineo e Walter Tocci promettono di votare comunque contro il governo, mentre Felice Casson frena prudente (in ballo per l'ex pm c'è la poltrona di sindaco di Venezia) e tra gli altri firmatari degli emendamenti della minoranza Pd molti già iniziano a defilarsi. «Sono stati fatti dei passi avanti», assicura Miguel Gotor. «Alla fine – tira le somme Amendola – balleranno solo quattro o cinque voti».

Sempre troppi, considerando che Renzi sta sopra di sette voti al Senato, e l'ipotesi fiducia per blindare la maggioranza resta in campo.

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