Politica

L'infinita battaglia di Piano, in guerra col fisco da 15 anni

L'architetto e senatore a vita ha fatto ricorso contro l'Irap pagata per realizzare nel 2000 l'Auditorium di Roma. Ha vinto i primi due gradi di giudizio, ma la Cassazione gli ha dato torto

Il capo dello Stato Giorgio Napolitano con Renzo Piano, che è senatore a vita
Il capo dello Stato Giorgio Napolitano con Renzo Piano, che è senatore a vita

Tutto inizia nel 2000. Quindici anni fa, Renzo Piano era già l'archistar progressista che conosciamo. Certo non era ancora senatore a vita, ma in tutto il mondo i suoi palazzi erano stati già tirati su. Proprio in quegli anni il Comune di Roma aveva pensato bene di spendere i nostri quattrini per la realizzazione dell'auditorium, affidando proprio a lui il disegno dell'opera. Piano accetta. Ma, come scopriremo dopo, non ci sta a pagare l'odiosa Irap, la tassa partorita da Visco e che si applicava anche su (...)

 

(...) quell'appalto. Il Comune stacca, come merita il tratto genovese, cospicue parcelle per rendere evidentemente ancora più eterna Roma, abbellire il quartiere Flaminio e gonfiare l'ego terrazzato (nel senso di esibito in terrazza) del sindaco visionario che aveva assegnato l'appalto. Ma l'architetto che ti fa? Si oppone proprio alle imposte che rendono possibile la sua miliardaria parcella e fanno da cassa da guerra per questo Stato malato, buono solo a fare spesa pubblica.

Cerchiamo di essere seri. Anche se sulla vicenda converrebbe essere farseschi. L'Irap è la più odiosa delle imposte perché grava (oltre che sulle imprese) anche sui liberi professionisti e va a colpire non tanto l'utile realizzato (di quello si occupa l'Ires, non vi preoccupate), ma il valore aggiunto e dunque anche gli interessi passivi pagati alle banche e gli stipendi elargiti ai propri dipendenti. Roba da matti. E molti professionisti meno illustri del nostro Piano, si sono opposti giudiziariamente al pagamento dell'imposta. La legge, o meglio alcune sentenze della Cassazione, dicono infatti che il balzello non è dovuto dal professionista sprovvisto di un'autonoma organizzazione. Vai poi a definirla, esattamente, questa dannata autonoma organizzazione. Roba da avvocati.

Inoltre Piano, come tanti altri piccoli invisibili, cosa fa? Conoscendo bene la nostra amministrazione finanziaria e probabilmente consigliato da qualche saggio consulente, prima paga (per non incorrere in eventuali mostruose sanzioni e interessi) e poi un secondo dopo ricorre alla commissione tributaria per chiedere indietro l'imposta che ha appena versato e che ritiene non dovuta. Un americano non capirebbe la logica. E forse anche un uomo dotato di senso comune. Ma chi conosce il fisco italiano sa perfettamente che il percorso adottato dall'architetto e dai suoi consulenti è il più giusto e conveniente.

In Italia, tra i tanti, ci sono due prassi assurde che riguardano il fisco. Il contribuente che volesse contestare un'imposta prima paga e poi ricorre, sperando nel Cielo. Al contrario lo Stato prima incassa dal contribuente sospettato («accertato» si dice in modo fuorviante) e poi se perde restituisce il maltolto ( solve et repete , lo chiamano). Trattasi di moderna definizione di schiavismo fiscale. Ma questo è un altro discorso.

Ritorniamo al nostro Piano. La sua lotta contro il fisco ce lo rende anche simpatico. Insomma contesta con un ricorso l'Irap pagata nel 1998, 1999 e 2000. E meraviglia delle meraviglie, la bellezza di due diverse commissioni tributarie accettano il suo ricorso: l'Irap per la realizzazione di quel benedetto auditorium da parte del professionista Piano non era dovuta. Uno si immagina dunque un pronto rimborso. Ma l'Agenzia delle entrate, come suo diritto, non molla l'osso e ricorre in Cassazione.

Il 3 dicembre del 2014 (con deposito della sentenza solo un paio di settimane fa) la sesta sezione civile della Cassazione, cassa però le pronunce favorevoli a Piano e dà ragione all'Agenzia delle entrate. Niente rimborso per l'architetto. Un nuovo giudizio si dovrà comunque celebrare.

La Corte suprema scrive: «Il giudice del rinvio (cioè la commissione tributaria, ndr ) ha fatto mal governo dei principi appena espressi, escludendo che potesse avere rilevanza, ai fini del requisito dell'autonoma organizzazione, quanto meno ai fini dell'anno 2000, la corresponsione a terzi di compensi per prestazioni professionali pari a £.15.460.000.000 e, peraltro, corrisposte in misura ingente anche a società di servizi per £.1.618.897.000. La circostanza che gli emolumenti corrisposti alla anzidetta società fossero riconducibili all'esecuzione del progetto per la costruzione dell'Auditorium di Roma affidato al professionista non può costituire, infatti, dimostrazione dell'assenza del requisito dell'autonoma organizzazione, anzi dimostrando come detto contribuente si fosse avvalso in modo non occasionale del lavoro altrui per realizzare tale opera allo stesso affidata dal Comune di Roma corrispondendo ingenti importi».

Per farla semplice i giudici con l'ermellino (quelli che si sono inventati per intenderci la tagliola dell'abuso del diritto) dicono che se un professionista spende circa 17 miliardi di vecchie lire in consulenze non può pensare di definirsi senza autonoma organizzazione. E dunque deve esser sottoposto all'Irap. Circostanza che professionisti meno illustri di Piano conoscono bene: se si azzardano a pagare qualche migliaio di euro l'anno per una segretaria, per il fisco sono dotati di autonoma organizzazione. Così come quei medici o liberi professionisti che utilizzano apparecchiature ritenute troppo costose non scappano alla tagliola della famigerata autonoma organizzazione. Tutti dunque sottoposti a quel 3,5 per cento di tassa in più, oltre a quelle sul reddito.

Diciamo così, Renzo Piano ci ha provato. E questo, come tutti coloro che cercano di combattere le spire del fisco, ce lo rende simpatico. Dietro a quell'aria di politicamente corretto, snobbissimo manutentore delle periferie, senatore del Regno, architetto dei salotti parigini, in fondo si nasconde una favolosa partita iva brianzola. Olé.

Ps. Ormai ci siamo talmente assuefatti alla giustizia italiana da dimenticare che per ottenere un giudizio definitivo in materia tributaria e per di più tra le questioni più battute, come l'Irap e i suoi presupposti, ci vogliono lustri. E ancora non si è scritta la parola definitiva. La Cassazione ha infatti rinviato a un nuovo giudizio da parte delle commissioni tributarie.

Questa è la vera corruzione burocratica di un Paese che allontana gli investimenti.

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