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Ecco la riforma annacquata: articolo 18 via solo sulla carta

Resta decisivo il parere del giudice sui reintegri per ragioni disciplinari e discriminatorie

Dall'articolo 18 al Jobs Act il cambiamento è avversato dalla Cgil
Dall'articolo 18 al Jobs Act il cambiamento è avversato dalla Cgil

Roma - Cambiare tutto per non cambiare nulla. La formula gattopardesca vale anche per il Jobs Act renziano, approvato ieri dalla Camera con una maggioranza risicatissima ancorché assoluta (316 voti). Ora la palla ripassa al Senato che dovrebbe chiudere la partita, salvo imprevisti entro il 9 dicembre. Vale la pena, tuttavia, ricordare perché questo importante provvedimento non consegua gli obiettivi che si era prefissato risultando una copia sbiadita della precedente riforma Fornero. Risultando, come hanno detto Renato Brunetta e Daniela Santanchè (Fi), «un grande imbroglio» e «una grande occasione persa».

Articolo 18 a targhe alterne

L'introduzione del contratto a tutele crescenti sancirà l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziare un dipendente senza giusta causa. Sulla carta, però. Il potere dei magistrati resterà pressoché intatto: l'obbligo di reintegra varrà per i licenziamenti nulli e discriminatori oltreché per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Insomma, la certezza di poter licenziare varrà, come oggi, solo per i licenziamenti economici. In ogni caso, occorrerà leggere i decreti delegati, quando saranno emanati, per valutare completamente il nuovo impianto normativo.

La libertà ha un prezzo alto

Lo scopo della riforma è garantire alle aziende la necessaria flessibilità della forza lavoro per adeguarla alle esigenze produttive. I decreti delegati, secondo quanto si apprende, dovrebbero sempre privilegiare l'indennizzo economico rispetto al reintegro. Se questo rende le aziende più libere, va detto che la libertà ha un prezzo alto. Non è ancora chiaro quale tetto sarà fissato agli incentivi da corrispondere al lavoratore licenziato: potrebbero essere stabiliti 36 mesi massimi per quelli con maggiore anzianità oppure 24 mesi per le imprese con meno di 100 addetti. Più alto sarà il tetto meno sarà conveniente la riforma.

Una riforma a costo zero

Il Jobs Act prevede anche la riforma degli ammortizzatori sociali. Le assicurazioni previdenziali Aspi e mini-Aspi, introdotte dalla riforma Fornero, saranno estese a tutti i lavoratori in virtù della riduzione delle forme contrattuali. Anche in questo caso l'obiettivo è nobile: estendere le tutele e facilitare il reinserimento nel mondo del lavoro. Peccato, però, che la cassa integrazione non sarà abolita contestualmente e perciò le due forme di garanzia dovranno spartirsi lo stesso monte di risorse: 1,5 miliardi più altri 400 milioni per il 2015-2016 aggiunti dalla legge di Stabilità. La cassa integrazione e la mobilità in deroga dovrebbero scomparire nel 2016, tuttavia la legge delega prevede che l'erogazione della Cigs sia sospesa nei casi in caso di cessazione definitiva delle attività aziendali.

Due novità e un carrozzone

Tra le innovazioni del Jobs Act si inseriscono i controlli a distanza dei lavoratori (anche se limitati ai macchinari) e il demansionamento, ossia la possibilità di ricollocare i dipendenti a un livello più basso in base alle effettive necessità aziendali. Nascerà, infine, l'Agenzia nazionale per l'Occupazione: un nuovo ente partecipato da Stato, Regioni e Province autonome e controllato dal ministero del Lavoro. Si occuperà di servizi per l'impiego, inclusa l'Aspi, e di politiche per il lavoro, unificando centri di competenza finora frazionati.

Dubitare della sua efficacia non è sacrilegio.

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