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Ma resta lui lo scudo all'attacco speculativo

Ma resta lui lo scudo all'attacco speculativo

Q ualcuno lo ha definito con l'ossimoro del ministro «stabilmente in bilico». Ma per Giovanni Tria, classe 1948, ministro dell'Economia, vale di più una delle frasi di Churchill passate alla storia. Quella pronunciata dopo l'ennesimo fallito attentato contro di lui: «Niente è più emozionante nella vita che vedersi sparare addosso e non essere colpiti». A prendere la mira contro Tria sono stati entrambi i grandi azionisti del governo gialloverde, Lega e M5s, a giorni alterni, fin da subito, e cioè dalla manovra finanziaria dello scorso autunno. In quel frangente, a fine settembre, si è capito subito che il professore di economia romano, vicino a Renato Brunetta, aveva avuto il via libera del presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché, pur avendo sulla carta caratteristiche adatte al governo del cambiamento (di destra, eurocritico, pro flat tax, ben poco filo tedesco), sarebbe stato fermo nel rispetto delle coperture di bilancio e capace di dire tanti «no». Due elementi fondamentali per tenere il Paese a galla dal rischio peggiore: gli attacchi del mercato al nostro debito pubblico. In una parola: lo spread. Non a caso, a settembre, è stato proprio Mattarella a chiedergli di restare al suo posto quando era pronto a dare le dimissioni per una manovra troppo in deficit. E da quel momento il suo peso ha iniziato ad aumentare, arruolato nel «partito del Presidente». Vale a dire l'unico reale contrappeso alle derive di questo governo. La sua insospettata forza ha cominciato a emergere in varie circostanze pubbliche, al pari di una certa simpatia. Come quando, in Indonesia per il Fondo Monetario di ottobre, al giornalista dell'Ansa che gli chiedeva della sua imitazione da parte di Crozza, ha risposto: «È esilarante, non ho potuto fare a meno di ridere». Sul pallottoliere si è allungata la fila dei punti a suo favore. Ed è stato proprio in quella riunione del Fmi che Tria ha cominciato a essere accreditato e riconosciuto come affidabile interlocutore del governo italiano. Quello con il secondo più grande debito pubblico al mondo, 2.300 miliardi, di cui almeno 600 detenuti all'estero. Tuttavia, dopo un po', qualcuno ha ripreso a sparare: Tria si sarebbe dovuto dimettere a fine anno, dopo la legge di Bilancio. Ma niente. Solo per poco però, perché gli agguati sono ripresi e sono andati avanti fino ai recenti attacchi, divenuti nel frattempo personali. E fino alla polemica sui rimborsi ai risparmiatori coinvolti nei crac delle banche, che Tria non voleva indiscriminati per distinguere truffati da furbi e difendere i soldi dei contribuenti. Così che tra fine marzo e i primi di aprile le dimissioni di Tria sono tornate una questione di ore. Al massimo qualche settimana. Salvo poi chiudere un accordo sui rimborsi esattamente come l'aveva immaginato il ministro. Un'altra gragnola di colpi finiti fuori bersaglio. Con Tria che è così arrivato più in sella che mai alla sua seconda riunione del Fondo, quella primaverile. Dove ha parlato del tema del momento, la flat tax, nell'unico modo possibile, e cioè mettendolo in relazione alla progressività costituzionale delle imposte e alla sostenibilità di bilancio. Che Salvini e Di Maio capiscano che uno come Tria se lo devono tenere stretto.

Come una polizza assicurativa sul Paese, prima ancora che sul governo.

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