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Alla ricerca della ricetta magica per fare digerire il "minestrone"

I partiti e l'allergia all'"inciucio": tecnico o di scopo, il "minestrone" fa paura

Alla ricerca della ricetta magica per fare digerire il "minestrone"

All'osteria della politica, i commensali a tavola sono nervosi e impazienti. Intuiscono che non basterà il tempo del pranzo per farsi servire il vino novello appena scaturito da una confusa vendemmia. Ognuno discetta su gradazione e sentori di retrogusto, ma non conosce la drammatica verità: l'oste e i suoi fornitori non sanno neppure come ribattezzare il vino e anzi stanno ancora discutendo sull'etichetta.

L'impasse elettorale innescata il 4 marzo rimanda a un caso da manuale, più facile da analizzare che mettere in pratica: quello di un governo che prima va denominato e poi presentato alle Camere per ottenerne la fiducia.

Quando il sistema maggioritario indicava un vincitore (dal debolissimo Prodi del 2006 al nettissimo Berlusconi del 2001 e 2008), gli esecutivi si autocostituivano. Al premier in pectore non restava che condurre i negoziati con gli alleati, preparare la lista dei ministri e indicare i presidenti di Camera e Senato.

La fantomatica Terza Repubblica, rinata su base proporzionale, ha scelto per sua esclusiva volontà la strada tortuosa delle aggregazioni tra partiti e dei presidenti del Consiglio di mediazione, anziché leader identitari e carismatici.

Senza una maggioranza naturale, una via politica ed aritmetica percorribile è quella che Salvini ha subito bollato come un «minestrone», l'evoluzione 4.0 della vecchia ammucchiata.

È chiaro a tutti che una questione apparentemente semantica, l'etichetta del vino novello per intenderci, sia in realtà decisiva per condurre i quattro principali partiti a una soluzione positiva per il Paese. Ci vorrà pertanto uno sforzo di fantasia per fare collaborare forze che, in condizioni normali, manco si riconoscerebbero come reciproci interlocutori. Forse non basterà attingere dal variopinto glossario politico italiano che in settant'anni ha saputo sfornare formule in grado di superare paludi pericolose, tipo la «non sfiducia» e poi la «solidarietà nazionale» di un Paese messo in ginocchio dal terrorismo; fu l'unico modo per mettere insieme il diavolo e l'acqua santa (Pci e Dc).

Detto in parole semplici, il vero compito dell'oste Mattarella sarà coniare una nobile definizione per dare effimera dignità a un vinello frutto di troppe mescolanze. Il «governo del presidente»? Richiama le invasioni di Napolitano, ancora da cicatrizzare per il centrodestra. Il «governo di scopo»? Evoca giunte tecnico-militari tipo quella di Badoglio e Monti, il cui unico scopo era quello di gestire il dopo Mussolini e il dopo Berlusconi. Il «governo istituzionale»? Rimanda a tromboni ingessati delle aule parlamentari, immagine non confacente alle giovani leadership di M5s e Lega.

Non si tratta però di un gioco a premi da chiudere in serata con una intuizione ad effetto. Il Parlamento deve ancora insediarsi, il mite Gentiloni sta assicurando un governo nel pieno delle funzioni, mentre i politici più saggi come Mattarella e Berlusconi vogliono scongiurare frettolose accelerazioni.

Ai leader non resta che ideare una confezione presentabile per un esecutivo passabile.

Che magari alla fine non sarà molto dissimile da quel «minestrone» che non si può servire subito a tavola per non rovinare l'umore e la digestione degli italiani.

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