Politica

Il rinvio del voto e i timori di Matteo di finire bruciato

I consigli di Giorgetti: attento, da Segni a Renzi, chi evita le urne finisce male

Il rinvio del voto e i timori di Matteo di finire bruciato

La storia dell'ultimo quarto di secolo parla chiaro. E dice che tutti i leader politici che hanno deciso di rinviare l'appuntamento con il voto nonostante fossero sulla cresta dell'onda hanno poi fatto una brutta fine. Va così da venticinque anni. Il primo fu Mario Segni che nel '93 - dopo aver trionfato con i referendum a cui andarono a votare oltre 37 milioni di italiani - rifiutò l'offerta di Silvio Berlusconi di candidarsi come leader del centrodestra. L'anno dopo Segni finì per essere eletto solo con il recupero proporzionale, clamorosamente sconfitto nel suo collegio di Sassari. L'ultimo, storia recente, è stato Matteo Renzi. Che nonostante avesse l'Italia in mano dopo le europee del 2014 - con il Pd al 40,8% - preferì temporeggiare e rinunciare alle elezioni anticipate. In mezzo pure Berlusconi, che se nel 2010 avesse deciso di far saltare il banco dopo lo strappo di Gianfranco Fini forse non sarebbe finito nel vortice che poi lo costrinse alle convulse dimissioni del novembre 2011.

È questo il senso dei ragionamenti che non da oggi tormentano un pezzo importante della Lega, Giancarlo Giorgetti in particolare. Il potente sottosegretario leghista è infatti convinto che la parabola di consensi di Matteo Salvini sia ormai arrivata al picco massimo e che ci siano davvero pochissimi margini di miglioramento. I sondaggi, d'altra parte, danno stabilmente la Lega sopra al 30%. E, questo ha detto Giorgetti in privato a diversi esponenti del Carroccio ma pure di Forza Italia, ora il rischio è solo quello di infilarsi in un trend di decrescita dovuto alla «pericolosa» alleanza con i Cinque stelle. Non che Giorgetti dubiti delle capacità politiche e comunicative di Salvini, ci mancherebbe. Il punto, piuttosto, è che prima o poi un pezzo di elettorato leghista - soprattutto quello del Nord - non si limiterà a prendersela solo con Luigi Di Maio ma inizierà ad assimilare la Lega al suo alleato di governo. D'altra parte, non siamo più nella prima Repubblica dove il consenso durava decadi - cinquant'anni quello della Dc, un ventennio quello di Berlusconi - ma in un momento storico nel quale si passa dai riflettori al dimenticatoio nello spazio di un mattino. Basti pensare a Mario Monti (accolto nel 2011 come l'uomo della provvidenza e poi bocciato nelle urne nel 2013) o a Renzi (che solo due anni il pieno delle europee fu costretto a lasciare Palazzo Chigi).

Eppure, nonostante i consigli di un Giorgetti che sulla Tav era quasi certo si sarebbe arrivati alla crisi di governo, Salvini continua a voler tenere in piedi l'alleanza con il M5s. D'altra parte, che sia solo nella disponibilità del leader della Lega il destino del governo Conte è cosa ormai nota. Perché è evidente che i Cinque stelle, ormai schiacciati dalla parabola discendente di consensi, faranno il possibile per restare aggrappati al loro seggio. «In aula sono seduto vicino a molti grillini eletti all'uninominale al Sud - spiega un deputato azzurro, ex ministro nei governi Renzi e Gentiloni - e il loro unico oggetto sociale è andare avanti altri quattro anni perché sanno che non saranno mai ricandidati». Eppure al momento Salvini continua a voler tirare dritto, con l'obiettivo di incassare alle europee del prossimo 26 maggio un 30% da sommare magari al 5-6% di Fratelli d'Italia.

A quel punto sarebbe ad un passo dalla leadership di un polo sovranista autonomo da Forza Italia che, giura chi conosce bene il leader della Lega, è da tempo il suo vero obiettivo.

Commenti