Politica

Rischio zero? In aeroporto non c'è

I terroristi rinunciano a colpire le aree più sorvegliate, ma fanno strage comunque

Riccardo Pelliccetti

Se qualcuno si era messo in testa che lo Stato Islamico fosse in crisi, dopo l'attacco all'aeroporto di Istanbul dovrà rivedere le sue ottimistiche valutazioni. Non per la strage che ha provocato 41 morti, ma per il modo di operare dei terroristi. Che il Califfato non stia più guadagnando terreno è cosa nota, però, proprio per questo motivo, reagisce in maniera ancora più dura, colpendo obiettivi che hanno degli standard di sicurezza più alti, come gli aeroporti.

Lo scalo Atatürk di Istanbul è uno tra più sorvegliati del mondo, a differenza di Bruxelles che aveva un allerta terrorismo meno elevato rispetto alla Turchia. Ma non è bastato. La cintura difensiva è sì un deterrente per i terroristi, ma questo li spinge a non mirare più al grande obiettivo ma a puntare su quello che dà più possibilità di portare a termine l'azione. Ecco perché i kamikaze dell'Isis, non riuscendo a entrare nell'aeroporto, si sono fatti saltare davanti all'ingresso del terminal dei voli internazionali, facendo strage di viaggiatori in fila per i taxi o in coda nella hall. «Sono andati agli arrivi, dove la gente esce dall'aeroporto e non entra, quindi dove c'è meno controllo - spiega Gianandrea Gaiani, esperto di terrorismo e sicurezza e direttore della rivista AnalisiDifesa . I controlli vanno fatti sia alle entrate sia alle uscite. Al terrorista basta aspettare che qualcuno esca dalla porta automatica per penetrare nello scalo».

A Bruxelles erano arrivati fino ai banchi del check in, ma in ogni caso il risultato degli attacchi è stato il medesimo. Non riuscendo a penetrare nel cuore degli aeroporti, che oggi sono molto protetti, gli assassini dell'Isis si «accontentano» di sparare sulla folla e di farsi saltare in aria sulla prima linea di sicurezza. «È sufficiente cercare la massa di persone da colpire afferma Gaiani - basta andare nel parcheggio, senza passare il controllo, e farsi saltare in aria. L'effetto è lo stesso: tutti i media diranno che è stato colpito l'aeroporto».

Il rischio zero non esiste, anche perché ci sono molti modi per violare i sistemi di controllo. Il primo fra tutti è avere dei complici fra il personale aeroportuale. Certo, la selezione dei dipendenti è sempre più severa ma, com'è accaduto all'Airbus russo esploso sul cielo del Sinai lo scorso ottobre, il nemico è sempre in agguato. A mettere la borsa con l'esplosivo a bordo, infatti, era stato un meccanico dell'Egypt Air, aiutato da un addetto ai bagagli.

Gli israeliani, che hanno subito attacchi sia in casa sia all'estero contro i velivoli o contro i banchi del check in della compagnia di bandiera, hanno creato una serie di cinture difensive. «Ci sono agenti di polizia e dell'antiterrorismo, addestrati a individuare l'atteggiamento psicologico dei terroristi aggiunge Gaiani -. Tengono d'occhio tutte le persone, fotografano e fanno le verifiche. Poi ci sono più controlli, con telecamere, metal detector eccetera. Ma devi essere pronto a trascorrere non meno di due ore per accedere ai gate. Bisognerebbe farlo anche nelle stazioni dei treni e dei metrò. Ma ciò comporterebbe dei tempi allucinanti, e condizionerebbe troppo le nostre vite, dandola vinta, di fatto, ai terroristi».

È possibile ridurre il rischio attentati negli aeroporti? «Si può con una cintura di sicurezza più periferica, cominciando le verifiche sulle strade di accesso allo scalo, controllando passeggeri e bagagli di auto, taxi e bus. I rischi diminuirebbero.

Servirebbe però tanto personale e soprattutto tanta pazienza tra i viaggiatori».

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