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Rissa continua per un voto. Il governo resta nel pantano

Insulti su mafia e Raggi: "Paraculo", "Sciacquati la bocca". Campagna elettorale permanente, Quirinale in allarme

Rissa continua per un voto. Il governo resta nel pantano

«Sei un paraculo!». «Sciacquati la bocca se parli con me!». La lotta nel fango dei due bulli di governo prosegue con brio, e di qui alle elezioni europee ne sentiremo di ogni colore. Una gigantesca rissa, messa in scena da Lega e Cinque stelle per oscurare gli altri attori politici e strappare più voti possibili, e in mezzo l'inutile governo Conte ridotto alla totale paralisi.

Al Quirinale non nascondono la crescente preoccupazione: i conti vanno a rotoli, l'economia è ferma, il decreto Crescita è una pezza fredda. E il rischio che si vede dal Colle non è quello di una crisi a breve, ma di un totale «blocco» dell'azione di governo.

I fronti aperti su cui Lega e Cinque stelle si accapigliano riguardano tutto lo scibile governativo, e ogni giorno ne viene inventato uno: dal surreale decreto Crescita al Salva Roma, dal caso Siri alla leva obbligatoria, dalla Resistenza all'aborto. Peccato che poi, dopo ogni rissa, i contendenti assicurino che intendono andare avanti così. «Abbiamo tante cose da fare, lavoriamo con entusiasmo e non c'è nessuna crisi di governo alle porte», giura Salvini. E Di Maio gli fa eco: «Certo che nessuno apre crisi di governo, con tutte le cose che abbiamo ancora da fare».

Un attimo dopo i due ricominciano a lanciarsi palate di letame. Salvini rivendica lo stop al Salva Roma e attacca la Raggi: «I cittadini romani non hanno bisogno di regali ma di una amministrazione efficiente». Di Maio mastica amaro, ma non riesce a difendere l'indifendibile Raggi, e quindi la butta sul caso Siri: «Deve dimettersi. Sulla legalità passi indietro non ne faremo mai. C'è una gran bella differenza tra garantismo e, diciamola così, paraculismo». Poi spedisce i suoi fedelissimi, da Corrao a D'Uva, a sparare contro il sottosegretario leghista: «Troppi dubbi e relazioni con personaggi legati alla mafia. Il silenzio di Salvini su un suo esponente di spicco che dialoga con chi ricicla i soldi della mafia è una vergogna».

Il leader leghista reagisce come una furia: «Il mio nome - tuona - non può essere accostato in alcun modo alla mafia. Chi parla di Lega deve sciacquarsi la bocca perché con la mafia non abbiamo nulla a che vedere».

Si butta nella mischia anche il premier Conte (che domani parte per la Cina, si immagina con un carico di arance), la cui unica attività istituzionale sembra ormai quella di scendere ogni giorno sul piazzale davanti Palazzo Chigi, all'ora stipulata da Rocco Casalino con le compiacenti troupe televisive, e recitare un fervorino (faremo questo, faremo quello) senza l'inutile fastidio di domande cui non saprebbe rispondere. Ieri ha annunciato molto autorevolmente che sul caso Siri deciderà tutto lui: «Ascolterò il sottosegretario, lo guarderò negli occhi e prenderò le mie decisioni tenendo conto del principio di innocenza a cui come giurista (sic, ndr) sono molto sensibile». Poi ha lasciato intendere che la decisione, in verità, sarà quella già annunciata dal partito della Casaleggio, ossia la richiesta di dimissioni. Salvini lo zittisce: «Non c'è alcuna richiesta di dimissioni da parte di Conte, né io né lui facciamo i giudici».

Il surreale balletto continua poi con tutti e tre che in coro giurano che va tutto bene, e il governo «va avanti».

Verso il baratro.

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