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Rivoluzione proporzionale: ecco le istruzioni per l'uso

Con il nuovo sistema tutti devono cambiare le strategie Rotondi: «Centrodestra ok, però Silvio pensi di più a Fi»

Rivoluzione proporzionale: ecco le istruzioni per l'uso

Discorsi in libertà nella «nuova epoca del proporzionale». Tra Natale e Capodanno Matteo Renzi si è cimentato in un rompicapo: perché Silvio Berlusconi ha tirato a sé il semisconosciuto senatore Antonio Gentile, creando una situazione alquanto singolare? L'ex seguace di Alfano, infatti, continuerà a ricoprire il ruolo di sottosegretario nel governo Gentiloni, ma senza candidarsi farà campagna elettorale per Forza Italia, più in particolare per il suo braccio destro Pietro Aiello, ex azzurro, finito in Ap, che porterà in dote al Cav il collegio «sicuro» di Catanzaro al Senato. Più o meno lo stesso esempio seguirà un altro ex seguace dell'attuale ministro degli Esteri, il viceministro Luigi Casero. «Un'operazione acrobatica, un doppio salto mortale carpiato - si è sfogato il segretario del Pd con i suoi - solo per togliere un seggio a me. Berlusconi non ha capito che la cosa più probabile è che non vinca nessuno e che senza di me non si farà nessun governo. Deve stare attento a danneggiarmi: c'è sempre il rischio che si finisca con il ribaltone, con il Pd che va a fare compagnia a Bersani e ai cinque stelle. L'unico ostacolo ad una prospettiva del genere sono io».

Tra l'albero di Natale e i botti di Capodanno anche Gigino Di Maio ha fatto un bagno di proporzionale. Ha abbandonato la torre d'avorio del tradizionale isolamento grillino «duro e puro» e si è messo a teorizzare alleanze: in primis gli scissionisti del Pd e, poi, sull'altro versante, la Lega (la candidature nelle liste 5 stelle di Gianluigi Paragone, ex direttore della Padania, è un primo ponte). «Se vogliamo governare, dobbiamo aprirci agli altri» è il suo motto, che fa inorridire i Di Battista e i Fico.

Si è attrezzato per il proporzionale anche Matteo Salvini, che in questa campagna elettorale si sta adoperando soprattutto per ingrossare le file della Lega: ha inghiottito quel che resta di Alleanza Nazionale e, in Lombardia, i bene informati dicono che ha svuotato quel pezzo di Fratelli d'Italia che fa riferimento a Ignazio La Russa. Infine, per attirare nella sua orbita di influenza la Meloni, ha escogitato una proposta tutta sua per i collegi uninominali lombardi: metà alla Lega e metà a Forza Italia, ma mentre lui si dovrà far carico di Fratelli d'Italia, il Cav dovrà prendersi sulle spalle la cosiddetta «quarta gamba» centrista. Insomma, il pallino fisso di Salvini non è tanto quello di aumentare il consenso della coalizione di centrodestra, quanto quello di avere una seggio in più degli alleati: il tipico riflesso condizionato che anima la logica del proporzionale.

Un «riflesso» che molti consigliano anche a Berlusconi. «Sono settimane - racconta Gianfranco Rotondi, dc alla corte del Cav - che gli suggerisco di fare una campagna elettorale più per Forza Italia che per il centrodestra, se non vuole avere brutte sorprese».

Eh già, magari distrattamente, magari animata da quel fatalismo che accompagna i moti inerziali, la classe politica della Seconda Repubblica, quella che si è forgiata per venti anni sugli schemi del maggioritario, si sta addentrando nella Terza, che, invece, è contraddistinta dal ritorno agli stili comportamentali del proporzionale. Un cambio di passo che sta avvenendo inconsapevolmente. O quasi. La prima avvisaglia è stata la caduta della pregiudiziale (tipico portato dei «blocchi» del maggioritario) di un maître à penser della sinistra come Eugenio Scalfari su Berlusconi: «La politica - è stata la motivazione - non è un fatto di moralità, è un fatto di governabilità». Ora un altro arcinemico del passato, Bill Emmott, ex Economist, ipotizza per Berlusconi il ruolo di «uomo chiave nei negoziati per un governo di coalizione tra centrodestra e centrosinistra». Un meccanismo squisitamente improntato al proporzionale, che echeggia quanto detto dal Presidente Mattarella, nel suo messaggio di Capodanno. Un discorso che, letto in controluce, poteva essere tranquillamente pronunciato prima del 1994. Archiviato l'interventismo di Napolitano, il suo successore, infatti, lascia che siano «i partiti e il Parlamento» a scrivere la «pagina bianca» del dopo-voto: per cui non c'è nulla di precostituito e il capo dello Stato sarà solo il «notaio» delle trattative. «Le possibili formule di governo - spiega uno dei consiglieri del Quirinale - le decideranno i partiti sotto la loro responsabilità. Sono finiti i tempi dei governi del presidente».

Siamo in piena scuola democristiana. Questo significa che esistono le coalizioni, che, se saranno vincenti, si assumeranno il ruolo di governo. Ma se ciò non avvenisse, tutto sarà lasciato alle dialettiche parlamentari che dovranno garantire un governo al Paese. Per cui per affrontare le trattative tra i partiti, i giochi del parlamentarismo, le manovre di Palazzo, i leader dovranno, innanzitutto, contare su dei parlamentari affidabili: un requisito essenziale nel sistema proporzionale, dove, basta farsi i conti, c'era meno trasformismo che nel maggioritario (questa legislatura si chiude con 580 cambi di casacca). All'epoca erano i partiti a cambiare linea politica, non i singoli parlamentari. Un'esigenza, quella di un alto grado di lealtà, che sta già pesando nelle scelte dei candidati. «Capacità e lealtà - spiega Sestino Giacomoni, uno dei consiglieri del Cav - saranno i due requisiti prioritari. Noi possiamo già contare su quelli che nell'attraversata del deserto di questi anni, non hanno ceduto alle lusinghe degli altri». Concetto che ritorna anche nelle battute, tra il serio e il faceto, di Matteo Renzi. «Io nel far le liste elettorali - ha spiegato con una punta d'ironia sulle piste di sci - non sarò pazzo, ma sarò pignolo. Farò a tutti un esame di renzismo: Cosa è successo nella prima Leopolda? Chi ha aperto la seconda giornata dei lavori della quarta Leopolda? E via dicendo...». Anche i grillini saranno attenti all'elemento fedeltà. Anzi, dopo l'esperienza di questa legislatura, per loro il problema è diventato una fobia: nel codice etico è previsto l'obbligo di votare la fiducia a un premier grillino, pena l'espulsione e la multa di 100mila euro. Neppure a Pyongyang.

Non basta. Come avveniva un tempo, nell'epoca del proporzionale i partiti dovranno fare incursioni negli altri partiti e coltivare rapporti preferenziali. Non è un caso che il Cav vada d'accordo più con la Lega di governo di Maroni e Zaia, che non con il movimentismo di Salvini. E che quest'ultimo prediliga il rapporto con Toti, rispetto a quello con l'istituzionale Tajani. Come pure è naturale che Di Maio lanci segnali a Grasso e a Bersani e non a D'Alema: «Con lui mai!». O, ancora, che Bersani parli con Orlando, Franceschini e Delrio, condizionando una possibile alleanza alla defenestrazione dell'attuale segretario del Pd. Oppure che Renzi alla fine decida di non forzare sull'approvazione dello ius soli con una motivazione particolare: «Che l'operazione riesca o meno - diceva in quei giorni il segretario del Pd - darei un formidabile argomento elettorale a Salvini, a danno di Forza Italia».

Il proporzionale è il regno delle alleanze trasversali, sotterranee: qui i confini non sono mai nitidi e si parla in codice. La proposta di Renzi di un'abolizione del canone Rai (anticipata da questo giornale due mesi fa), ad esempio, è un segnale al Cav alla vigilia delle grandi manovre del dopo voto: resta da vedere se amichevole, o no. «È naturale - osserva ancora Rotondi - che si valorizzino le aree amiche degli altri partiti e si penalizzino quelle nemiche. Il patto anti-inciucio che propone Salvini? La garanzia vera è che il centrodestra raggiunga la maggioranza da solo. Altrimenti bisogna essere realisti: si può ragionare o su una maggioranza che vada da Salvini al Pd; o, in alternativa, ad un'altra che vada da Forza Italia a Bersani.

Io credo più alla prima: Salvini è un rivoluzionario con un'anima di governo».

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