Cronache

La scarcerazione non dà scandalo. Questa volta ha vinto il diritto

Le regole del processo

La scarcerazione non dà scandalo. Questa volta ha vinto il diritto

Anche a cercarli con ostinazione, sarebbe difficile trovare nel percorso che la giustizia ha seguito per liberare ieri Anna Maria Franzoni degli spigoli su cui indignarsi, delle incongruenze tali da far gridare all'indulgenza immotivata, allo scriteriato buonismo. Sotto la luce accecante dei media, la magistratura - una volta tanto, si dirà - ha applicato al caso di Cogne tanto le regole del diritto quanto quelle del buon senso. Si tratta di spinte che a volte entrano in rotta di collisione, e che stavolta hanno portato invece all'unico risultato possibile.

Non entrano in scena, nel caso di Cogne, gli imputati classici di queste polemiche: i riti alternativi, le strade che consentono agli imputati di rinunciare in parte a difendersi per limitare i danni. La Franzoni non ha chiesto il rito abbreviato che le avrebbe dato lo sconto di pena. Ha affrontato il processo, rivendicando la propria innocenza a dispetto di ogni evidenza, come era suo diritto. In primo grado era stata condannata a trent'anni, e forse fu l'unica decisione in cui la pressione popolare ebbe un peso. Per la Corte d'assise, la madre avrebbe ucciso il figlio lucidamente, consapevolmente. Ma come si può pensare che una madre che distrugge in quel modo, senza motivo, la vita che lei stessa ha creato, sia lucida e consapevole?

Nel 2007, la sentenza d'appello rimise a posto le cose: confermando la colpevolezza, e riconoscendo ciò che era ovvio, cioè che una «patologia per scompenso ansioso», un «discontrollo», un «disturbo psicologico» avevano innescato la tragedia. A quel punto, era inevitabile concedere le attenuanti generiche. La pena scese a sedici anni. Tecnicamente, si poteva essere un po' più severi, ma non di molto. E comunque l'anno successivo la Cassazione giudicò congrua la pena, rendendo la condanna definitiva.

Il resto del percorso era inevitabile, a meno di non far prevalere la voglia di vendetta sul diritto: l'applicazione dell'indulto del 2006, gli sconti di pena previsti dalla legge, i permessi, gli arresti domiciliari. Tutti step doverosi, meritati dalla donna con un comportamento irreprensibile in carcere e fuori. Una sola cosa, non ha fatto per ingraziarsi i giudici: non ha confessato. Solo lei sa perché: per sfida, per orgoglio, per poter continuare a guardare negli occhi i suoi due figli. É questo a renderla antipatica, indigesta al punto da considerare scandalosa la sua liberazione? Forse. Ma non era giusto pretenderlo.

Davanti a un delitto terribile, l'Italia si è comportata da paese civile.

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