Politica

Alla prima sconfitta Renzi fa autocritica e spera nel Cavaliere

Il premier ammette il risultato negativo e sottolinea la differenza fra la destra "piazzaiola" di Salvini e quella "buona" di Berlusconi

Alla prima sconfitta Renzi fa autocritica e spera nel Cavaliere

«Nel teatrino vecchia maniera della politica, tutti dicono di aver vinto. Noi non siamo così: non diciamo che il dato del Pd sia buono. Non siamo contenti». Nelle difficoltà, come sottolineano i suoi, «Matteo dà il meglio di sé».

E così, dopo una notte in bianco tra Nazareno e Palazzo Chigi ad esaminare i dati, Renzi si presenta ai giornalisti e prende il toro per le corna, senza mettere la sordina: «Nessun sorriso d'ordinanza, avremmo voluto andare molto meglio». Soprattutto a Napoli, dice, dove «c'è il risultato peggiore» e dove promette un'azione «forte» sul Pd locale, che verrà commissariato: «Dopo due sconfitte non possiamo continuare a far finta di niente», dice. Del resto proprio il Sud, dove vincono arruffapopolo come de Magistris, è - in vista del referendum di ottobre - il tallone d'Achille per il suo Pd, e lì occorre mettere le mani. Anche se il referendum, dice «sarà tutt'altra partita», sulla quale questo voto non può dire niente.

Al tempo stesso, però, il premier si rifiuta di avallare la «narrazione» entrata in voga su queste amministrative: «Su 1.300 Comuni che andavano al voto ne abbiamo conquistati 1.000», sottolinea. Altro che débâcle descritta dagli avversari: «Come Pd siamo attorno al 35%, se si sommano le liste collegate ai sindaci. E, attenzione ai numeri, i nostri candidati sindaci sono tutti attorno o sopra il 40%», soglia fatidica dell'Italicum. Un Italicum che, annuncia subito ben sapendo che la minoranza Pd già inizia a ricattare su questo punto, non ha alcuna intenzione di mutare: «Abbiamo sostenuto il premio alla lista e non alla coalizione, e io confermo su tutta la linea». La questione è chiusa, il Pd deve restare «a vocazione maggioritaria». Del resto, l'idea di allearsi con una sinistra ridotta, da Fassina ad Airaudo, a percentuali ridicole non ha senso. Quanto a Verdini, «dove si è cercato di fare alleanze non hanno funzionato minimamente». Discorso chiuso. Dare «una lettura nazionale» del voto è impossibile, spiega poi: i grillini sono andati bene a Roma e Torino, mentre «falliscono clamorosamente a Milano, Napoli, Bologna». Salvini «è stato stracciato da Fi a Milano», mentre a Roma Fi ha preso una batosta. «Gli elettori scelgono caso per caso, fanno zapping: non c'è voto omogeneo».

A Roma, sottolinea Renzi, «onore al merito di Giachetti, che ha fatto un mezzo miracolo», e ora «se la giocherà al ballottaggio». La delusione che brucia di più è quella di Milano, dove il premier in persona aveva scelto con largo anticipo il candidato, ed era convinto di avere in mano la carta vincente, capace di mettere in sicurezza per il Pd la Capitale morale d'Italia. Invece, il centrodestra berlusconiano, nonostante la Lega, è riuscito a mettere in pista un candidato altamente competitivo proprio sullo stesso terreno di Beppe Sala: moderato, centrista, rassicurante, di piglio manageriale. E infatti su Milano Renzi è molto parco di commenti: «Sala sta al 41,9%, uno dei risultati migliori», si limita a dire.

Ma la partita dei ballottaggi, ammettono nel Pd, è difficile ovunque, perché il voto di rabbia, quello antirenziano e quello «anti-sistema» possono facilmente coagularsi in modo trasversale, da destra a sinistra, giusto per la soddisfazione di dare una lezione al «potere» incarnato da chi governa. Mentre il Pd ha scarsi margini per allargare il proprio bacino di consenso.

È anche per questo, probabilmente, che il premier calca molto la mano sulla distinzione tra un centrodestra «buono» e moderato, quello di Berlusconi, e la destra piazzaiola di Salvini e Meloni: «Forza Italia e Berlusconi ci sono, chi lo nega è fuori dalla realtà».

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