Politica

Se perderemo il business egiziano sarà solo colpa del nostro governo

di Gian Micalessin

L a premessa è d'obbligo. L'unica colpa di Giulio Regeni è stata quella d'essere un ricercatore serio e meticoloso. Qualunque fossero le sue idee e le sue ricerche non doveva esser arrestato né, tantomeno, torturato ed ammazzato. Oggi però bisogna chiedersi se il nostro governo si stia muovendo nel modo più consono ad ottenere la verità sulla sua morte. O se, invece, la linea della contrapposizione non rischi di aggiungere al danno la beffa pregiudicando non solo verità e giustizia, ma anche i nostri interessi nazionali. Guardiamo quanto succede.

Improvvisamente le autorità del Cairo non sembrano più interessate a fermare i trafficanti di uomini e così ci ritroviamo a fronteggiare ondate di migranti salpati non dalla Libia, ma dall'Egitto. Sul fronte degli affari Francia e Germania sono già pronte ad occupare i settori commerciali lasciati sguarniti dall'Italia. E in Libia, scrigno dei nostri interessi nazionali, le forze speciali americane operano al fianco di Khalifa Haftar, il generale appoggiato da Egitto e Francia, che Roma vorrebbe emarginare a vantaggio del governo d'intesa nazionale del premier Al Serraj. Insomma mentre su Regeni non tiriamo fuori un ragno dal buco sugli altri fronti connessi all'Egitto registriamo seri contraccolpi. Con rischi non da poco.

In Europa siamo il secondo partner commerciale del Cairo dopo Berlino e le nostre esportazioni - in costante crescita prima del caso Regeni - promettevano quest'anno di toccare i 3,1 miliardi. Senza contare l'importanza energetica e geo-strategica del giacimento di gas Zohr, scoperto dall'Eni al largo delle coste egiziane. Un giacimento fra i più grandi del mondo destinato, secondo gli esperti dell'Opec a produrre «tra i 70 ed 80 milioni di metri cubi di gas al giorno» e ad «incidere sul mercato dell'energia mondiale». Questi immensi interessi sono, però, reciproci. Azzerarli, come pretende qualcuno, equivale a privarci delle leve indispensabili per ottenere, seppur lentamente e silenziosamente, proprio quella verità nel cui nome si vuole rompere con l'Egitto. Eppure il nostro governo sembra aver scelto questa deriva autodistruttiva.

Trascinato dall'enfasi autolesionista di una sinistra decisa a fare del caso l'irrinunciabile prima linea per la difesa di diritti umani e orgoglio nazionale l'esecutivo Renzi sembra perder di vista due elementi fondamentali. Il primo è che il ritrovamento del cadavere di Regeni è il risultato di uno scontro tra apparati d'intelligence egiziani. Il secondo è che il caso è un'opportunità per quanti in Egitto e altrove lavorano per compromettere i rapporti tra Roma e Il Cairo. «Se vuoi che qualcuno scompaia senza esser mai più visto - ricordava l'ex agente ed analista della Cia Robert Baer - mandalo in Egitto». Ed in Egitto non è un segreto che l'anomalo ritrovamento del cadavere di Regeni, riemerso all'arrivo di una delegazione d'imprenditori italiani, vada inserito nello scontro tra il presidente Al Sisi, già capo dei servizi segreti militari e quel Direttorato Generale d'Intelligence (Gihaz al-Mukhabarat al-Amma) manovrato dagli ex del defunto capo dei servizi Omar Suleimani, potentissimo uomo ombra di Mubarak. Se quel ritrovamento serviva ad imbarazzare Sisi e a compromettere l'incontro con i nostri imprenditori allora contribuire ad isolare l'Egitto, mettendo a rischio scambi commerciali ed interessi strategici, contribuisce solo ai piani di chi ha giocato con il corpo di Regeni. E a regalare spazio a chi sgomita per prendere il nostro posto.

In primo luogo a quella Francia del presidente Hollande che - accettate le spiegazioni sulla morte del concittadino Eric Lang, ammazzato dentro un commissariato egiziano nel settembre 2013 - è tornato dal Cairo, ad aprile, sventolando contratti per vari miliardi di euro.

Per non parlare di una Germania che - dopo aver consegnato all'Egitto a dicembre il primo di tre sommergibili lanciamissili - a marzo ha spedito al Cairo il vice cancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel alla testa di una delegazione di 120 imprenditori.

Un social democratico che nel pieno del caso Regeni ha tranquillamente incensato Al Sisi salutandolo come un presidente «degno di ammirazione».

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