Cronache

Il senzatetto, la prigione e il calore di Natale

Il senzatetto, la prigione e il calore di Natale

Quarantasei anni. E tredici anni passati dentro un rudere di campagna, mezzo diroccato, nelle campagne che confinano con la zona industriale, la casa di uno che la casa non ce l'ha. Sono cinquantamila quelli come lui, senza fissa dimora, senza un lavoro, senza niente. Sciolti in quel mare di povertà che tocca, secondo l'Istat, quasi sette milioni di italiani, che nessuna Aquarius va a prendere per caricarli a bordo e nessuna Diciotti porta in un mondo migliore. Il gelo li uccide sulle panchine dei parchi, agli angoli delle stazioni, oppure muoiono carbonizzati dentro una baracca. Finiscono sotto i treni, annegati nei fiumi, più di mille l'anno vengono sepolti senza un nome, come se non fossero mai esistiti. Uomini e donne che nessuno aiuta a casa nostra.

Ma Gianfranco Dore, sassarese, disoccupato e senzatetto, ha deciso di fare in prima persona quello che gli altri non fanno per lui e di chiedere giustizia alla Giustizia. Così una notte dopo aver scavalcato la recinzione, si è introdotto all'interno del capannone dell'ex concessionaria Nissan e Subaru, ha tirato fuori dalla tasca un accendino e ha dato fuoco al parafango di una vecchia Nissan Note posteggiata nel garage. Da lì le fiamme si sono propagate ad un'altra auto e poi agli arredi del vecchio ufficio clienti. Quando Polizia e Vigili del Fuoco sono arrivati lo hanno trovato ancora lì: «Sono stato io» ha detto Gianfranco, spiegando le ragioni di quel che aveva appena fatto prima che gliele chiedessero: «Almeno ora mi porteranno in carcere e non passerò il Natale al freddo». Fa tenerezza, ma ha anche qualcosa di rivoluzionario chi si improvvisa black bloc non per rivendicare un diritto ma per rimediare una branda al caldo e una fetta di panettone in compagnia il giorno di Natale.

Perché il povero ai tempi della globalizzazione si è fatto due nemici in più: quelli che lo vedono come una minaccia da evitare in tempi grami, («fammi stare alla larga, stai a vedere che faccio la fine sua»), e quelli che lo vedono come un fastidio da ignorare perché smentisce l'immagine di un Paese che ha posto, lavoro e vita per tutti i poveri del mondo. Non è un caso se molti espongono un cartello con su scritto: «Aiutatemi, sono italiano». Non per pretendere una precedenza, ma per invocare una parità. Gianfranco fa bene a chiedere il carcere ma non da mendicante.

É più giusto da prigioniero politico.

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