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La sfida di Teheran a Stati Uniti ed Europa. "Torniamo ad arricchire il nostro uranio"

La scelta riporta l'instabilità in tutto il Medioriente. Israele in fibrillazione

La sfida di Teheran a Stati Uniti ed Europa. "Torniamo ad arricchire il nostro uranio"

Soffiano venti di guerra sul Medio Oriente. Venti resi più impetuosi dall'inatteso arrivo, ieri, a Baghdad del segretario di Stato Mike Pompeo e dall'avvicinarsi della portaerei Uss Lincoln dirottata verso il Golfo Persico dopo le segnalazioni del Mossad su possibili attacchi ai soldati americani in Irak. Ovviamente il grande sospettato è l'Iran e, più precisamente, il generale Qassem Soleimani, comandante di quella Brigata Al Quds dei pasdaran specializzata nelle operazioni all'estero.

A infiammare l'atmosfera s'aggiunge l'ultimatum del presidente iraniano Hassan Rohani all'Unione europea e agli altri firmatari dell'accordo sul nucleare. Rohani ha annunciato ieri l'abbandono di tutti i punti dell'intesa entro 60 giorni se gli europei non riprenderanno, come promesso, i rapporti commerciali. La Ue contraria alla rottura dell'accordo, voluta un anno fa dal presidente Donald Trump, si era impegnata ad aggirare le sanzioni americane (ieri Trump ne ha introdotte di nuove su alluminio e acciaio) e a continuare le relazioni commerciali con l'Iran. Alla fine però ha rinunciato a sfidare Washington. Così ora Rohani annuncia l'immediato ripristino delle scorte di uranio a basso arricchimento e di acqua pesante. Se l'Europa non riavvierà i rapporti economici entro 60 giorni, riprenderà anche la costruzione del reattore di Arak e l'arricchimento dell'uranio «senza considerare ogni limite». La mossa di Rohani è la conseguenza delle pressioni dei settori più intransigenti del regime iraniano decisi a sfidare Usa ed europei dopo la cancellazione dell'intesa da parte americana. Proprio da quei settori, legati a doppio filo ai pasdaran, sembra provenire la minaccia segnalata dagli israeliani. In questo contesto l'arrivo di Pompeo in Irak va interpretato come un avvertimento agli «alleati» non sempre affidabili di Baghdad. Il governo del premier Haider Al Abadi, seppur appoggiato dagli Usa nella lotta all'Isis, resta infatti un esecutivo sciita vicino a quell'Iran che ogni anno devolve un miliardo di dollari alle milizie scite irachene conosciute come Unità di Mobilitazione Popolare. Tra le loro fila si contano 100mila combattenti sciiti a cui s'aggiungono i consiglieri militari iraniani presenti ai vertici di molte unità. Lo stesso capo della Brigata Al Quds Soleimani è spesso in Irak. Gli americani, che di recente hanno inserito i pasdaran nelle liste del terrorismo, temono una rappresaglia orchestrata dai vertici di Al Quds utilizzando volontari iracheni. Un attentato, seguito da bombardamenti americani, rischia però d'innescare una reazione fuori controllo. Dall'Irak potrebbero partire attacchi contro un'Arabia Saudita coinvolta in Yemen nella guerra ai ribelli houti appoggiati da Teheran. E le conseguenze potrebbero estendersi a Israele, Gaza e Libano. A Gaza sia la cosiddetta Jihad Islamica, sia una parte dell'ala militare di Hamas sono controllate dagli iraniani che garantiscono fondi e addestramento. In Libano sono pronte all'azione le milizie di Hezbollah che già hanno messa a dura prova l'esercito israeliano nel 2006. Non a caso Ziad al Nabala, segretario generale della Jihad Islamica palestinese, ha descritto il recente lancio di missili contro Israele come «una preparazione per la grande battaglia» destinata a scoppiare la prossima estate. Certo, ad acuire la tensionecontribuiscono anche i falchi della Casa Bianca, primo fra tutti quel consigliere per la Sicurezza John Bolton, che ha voluto l'invio della portaerei Lincoln nel Golfo Persico e ha premuto sulla Casa Bianca perché approvasse, nonostante i pareri contrari di Pentagono e Segreteria di Stato, l'inserimento dei pasdaran nelle liste del terrorismo. Alla fine per fare la guerra serve, però, il sì di Trump.

E fin qui, nonostante dichiarazioni e tweet vulcanici, il presidente, sia in Corea del Nord, sia in Venezuela, non ha scelto la strada dell'intervento, ma quella della trattativa e della pressione economica.

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