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La sfiducia del quartiere nella morsa dei clan

Il lamento dei cittadini: «Che senso ha andare al voto in un posto dove lo Stato non esiste?»

La sfiducia del quartiere nella morsa dei clan

Roma - A Ostia «Suburra» non è solo una fiction e nella serie di Netflix personaggi e vicende sono molto aderenti alla realtà. Persino il nome di uno dei protagonisti, Spadino, rimanda a quello di una delle famiglie che comandano nel quartierone sul mare di Roma, gli Spada. Al punto che uno del clan, alla prima del film sul malaffare romano, nell'ottobre del 2015, era riuscito a farsi fotografare tutto sorridente con gli ignari attori di «Suburra».

Ma ad Ostia gli Spada, numerosa famiglia di origine sinti imparentata con gli altrettanto temibili Casamonica, non sono gli unici a spaventare abitanti e commercianti. La mala è appannaggio anche dei Fasciani, guidati da «don» Carmine, un impero criminale fondato sul traffico di droga e mire imprenditoriali negli stabilimenti balneari del litorale, e i Triassi, che trafficano droga e armi provenienti dai Balcani e sono legati alla mafia siciliana.

Minacce, estorsioni, usura, aggressioni, pestaggi, spari tra gruppi rivali per affermare la propria supremazia sul territorio. Chi ha provato a raccontarle certe cose, come la giornalista di Repubblica Federica Angeli, vive sotto scorta da anni. Ostia è un quartiere difficile. Chi non ci abita, prima di queste elezioni - arrivate dopo oltre due anni di commissariamento per mafia e che hanno avuto il merito di accendere i riflettori su questo municipio della capitale finora poco conosciuto se non per il mare - neanche poteva immaginare che a due passi dal centro di Roma potesse esistere una simile realtà criminale, dove la gente onesta ha paura. È anche per questo che ieri alle urne ci sono andati in pochi, ancora meno rispetto al primo turno. I cittadini non ci credono più nelle istituzioni, sono sfiduciati. Che senso ha, si chiedono, votare in un posto dove lo Stato non c'è? Anzi peggio, dove c'è ancora qualcuno che ai microfoni di una delle tante tv che in questi giorni hanno invaso il litorale per le elezioni dice che «lo Stato sono gli Spada perché mi danno lavoro». Trovano lavoro, gli Spada, fanno lezioni di boxe gratuite ai ragazzi in palestra, ti danno anche la casa se la cerchi perché sono loro a gestire il racket degli alloggi popolari a forza di sfratti forzosi, i titoli e le graduatorie con loro non contano. Così controllano il territorio, tengono in pugno la gente che invece di rivolgersi all'Ater, l'azienda per l'edilizia residenziale, è costretta a pagare per avere un tetto. Ad Ostia funziona così, come ha riconosciuto pure il Tribunale di Roma lo scorso ottobre emettendo condanne per più di 50 anni complessivi nei confronti di sette appartenenti alla famiglia Spada e confermando anche l'aggravante del metodo mafioso.

Funziona così da anni, ma se ne parlava poco e forse solo nelle pagine di cronaca locale.

Poi da quando c'è stata l'aggressione al giornalista Rai, della trasmissione Nemo, che chiedeva conto a Roberto Spada del suo appoggio al candidato di Casa Pound, Luca Marsella, che lo scorso 5 novembre ha collezionato oltre il 9 per cento di preferenze e il rampollo del clan, fratello del boss «Romoletto», fino a quel momento incensurato, è finito in carcere tra i fischi degli abitanti di Nuova Ostia contro i carabinieri che lo ammanettavano, delle vicende criminali del litorale romano si è cominciato a parlare come non mai e i racconti di «Suburra» hanno iniziato a prendere forma e a confondersi con la realtà.

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